Quando i migranti eravamo noi, la storia ci insegna a capire e ad accogliere
Carità per chi fugge, carità per chi lascia la propria casa. In questo appuntamento con la rubrica Don Pino Esposito Charitas, affronto un argomento che tante volte ha focalizzato odio invece di amore.
La storia con la sua ciclicità tende a ripetersi e così non è una sorpresa scoprire, rileggendola, che secoli fa erano i nostri nonni ed i nostri padri quelli che si mettevano in viaggio, attraversando mari ed oceani, in cerca di un lavoro, di una vita migliore, di una speranza in più.
L’ha ricordato anche il Papa più volte e specialmente durante il 15 gennaio in occasione della “Giornata mondiale del migrante e del rifugiato” parlando del clima di rifiuto, purtroppo, così esteso verso gli immigrati stranieri sia in Italia sia in altri paesi europei, solitamente accoglienti verso queste persone in passato.
Rileggendo la storia, e molti dovrebbero farlo ancora prima di mettere bocca in discussioni più grandi di loro, scopriamo che la storia dell’umanità si è mossa di pari passo con quella delle migrazioni, che sempre sono esistite e sempre esisteranno, e sicuramente non saranno dei muri di cemento la soluzione a questo grande movimento di persone che si mettono in gioco per la ricerca di un futuro migliore. Basterebbe rileggere anche solo la storia italiana per capire quanto importante questo fenomeno sia stato nei secoli per noi; secondo alcune stime, infatti, più di 26 milioni e mezzo di nostri connazionali sono espatriati durante l’ultimo secolo e ben 60 milioni di persone di origine italiana di prima, seconda e terza generazione vivono attualmente fuori dai confini nazionali.
Tante persone che sono andate a cercare fortuna, lavoro e speranza all’estero e lì si sono fermate, hanno fatto famiglia e hanno portato una parte di Italia nel mondo. Persone che non hanno dimenticato il loro paese natio, persone che poi spesso ritornano in Italia, culla dei loro affetti e ricordi, ma con una consapevolezza diversa, di aver lasciato un paese bellissimo ma dalle tante contraddizioni: solo nel 2015, secondo il Rapporto Italiani nel Mondo della Fondazione Migrantes, oltre 107 mila giovani (in maggior parte giovani diplomati, laureati, tecnici e ricercatori) sono espatriati dal “Bel Paese” in cerca di lavoro in quella che più di una vera e propria migrazione potremo chiamare “movimento transnazionale”. I nostri giovani preferiscono come mete la Gran Bretagna, la Germania, la Francia e la Svizzera, paesi a noi similari, ma con un approccio al lavoro diverso, stipendi più alti ed in generale più potenzialità di crescita e di carriera. Particolare rimane comunque la sovrapposizione di due dati: da una parte i 4 milioni e mezzo di cittadini italiani (iscritti presso l’Aire ossia l’Anagrafe degli italiani residenti all’estero) dall’altra i 5 milioni di immigrati stranieri presenti in Italia (secondi i dati Istat di Gennaio 2016), cifre simili che tendono quasi a sovrapporsi, c’è chi viene e c’è chi va.
E se oggi sono i nostri laureati a cercar fortuna all’estero, a fine Ottocento quando è iniziata la storia dell’emigrazione italiana erano contadini, manovali, artigiani ed operai disoccupati, la quasi totalità analfabeti e senza cultura, quelli che partivano per andare all’estero, sia in Europa sia soprattutto in America, per trovare un lavoro e magari una vita più dignitosa. Oggi ci vengono in mente le tante immagini di barconi e gommoni pieni all’inverosimile di uomini, donne e bambini in arrivo dall’Africa con mille difficoltà attraverso un viaggio lungo e pericoloso. Ieri i nostri connazionali , invece, partivano per i paesi d’Oltreoceano su vecchie navi negriere già utilizzate per il commercio degli schiavi o navi carico riadattate per lo scopo specifico, per settimane, stipati nelle stive, in viaggi di sola andata senza medici né assistenza sanitaria, chi non sopravviveva a questo lungo viaggio aveva una sola destinazione: essere gettato in mare. C’è una triste somiglianza tra le immagini in diretta che vediamo oggi di quei barconi nel nostro Mediterraneo e le vecchie foto delle navi che arrivavano ad Ellis Island, che per molti fu la porta d’ingresso a New York ed all’America tutta: quello che mi colpisce sono gli sguardi di queste e quelle persone, sguardi di chi ha perso tutto e si gioca l’ultima carta per un futuro migliore. E nella selezione da parte dei medici i vecchi, deformi, ciechi, sordomuti e coloro che soffrivano di altre malattie mentali o contagiose venivano fatti risalire sulle navi con cui erano giunti per essere rimpatriati per un nuovo viaggio che per molti fu anche l’ultimo. Al di là di tutto mi pare quindi giusto che i giovani sappiano quanta somiglianza ci sia tra i barconi strapieni di migranti che arrivano (o purtroppo non arrivano) sulle coste della Sicilia e le traversate che hanno caratterizzato l’emigrazione italiana fin dalla fine dell’800. E fu una storia cruda e dura quella dell’emigrazione italiana all’estero, forse anche un po’ dimenticata, che vide gli italiani spesso schiavizzati e sfruttati come manodopera a bassissimo costo nelle fabbriche statunitensi, nelle piantagioni brasiliane o argentine. Forse conoscendo questi fatti ci si ricorderebbe che, al di là del colore della pelle o del periodo storico, siamo tutti essere umani, figli dello stesso Dio.
“Italia, popolo di poeti, di artisti, di eroi, di santi, di pensatori, di scienziati, di navigatori e trasmigratori” come recita la frase sul Palazzo della Civiltà italiana a Roma. Ma fino agli anni Cinquanta negli Stati Uniti eravamo citati dalla stampa come un popolo di lustrascarpe e mafiosi, in Australia eravamo straccioni e la Svizzera ci odiava, trattando chi riusciva a varcare il confine come pezzente. Dopo decenni, e non senza difficoltà, come abbiamo visto, gli italiani all’estero, quelli che erano gli immigrati di un tempo, sono oggi completamente integrati, con grandi riconoscimenti in molti settori dell’economia e della politica, hanno saputo conservare la loro cultura e la loro lingua arricchendosi di esperienza e professionalità acquisite, trasmettendo , inoltre, le proprie radici ai propri figli e diventando così non solo italiani, americani o altro, ma cittadini del mondo. Non bisogna cedere alla paura, essere sottomessi alla demagogia, ma imparare ad accogliere e non dimenticarsi mai quando eravamo noi italiani ad emigrare. La storia ci deve far pensare e ragionare, nessuno ha intrapreso viaggi così lunghi e pericolosi per mero piacere personale, ma per qualcosa di più importante: ieri noi italiani spinti dalla fame e dalla voglia di riscatto alla ricerca di una vita migliore, oggi tanti immigrati in fuga dalla guerra, dalle persecuzioni ed alla ricerca, semplicemente, di una vita.