San Francesco d’Assisi e la sua diplomazia evangelica
1. L’agiografia
Francesco “giullare di Dio”, “colonna che sostenne la Chiesa in rovina”, “poverello di Assisi” e “compagno fedele di madonna Povertate”, ma soprattutto uomo di profonda fede e di una forte personalità carismatica, è molto lontano dalle trame della politica e, tuttavia, un episodio della sua straordinaria biografia ha fatto parlare molti storici di un intervento diplomatico e pacificatore su invito del Papa Innocenzo III, mentre altri l’hanno interpretato come una missione evangelizzatrice e, comunque, pacificatrice. Stiamo parlando dell’incontro tra San Francesco e il sultano di Egitto e Siria al-Malik al-Kāmil, avvenuto nel 1219.
La biografia di San Francesco, come quella di molti altri santi dei secoli passati si basa essenzialmente sulla documentazione agiografica e questo pone alcuni problemi interpretativi, come nel caso dell’episodio sopra menzionato. Secondo Delehaye, possiamo considerare come «agiografico» in senso stretto, un documento di carattere religioso che proponga come obiettivo l’edificazione spirituale che trae ispirazione dal culto di un santo ed è, contemporaneamente, destinato a promuoverlo. Proprio nelle finalità cogliamo un elemento importante di differenziazione tra la fonte agiografica e altre fonti (ad esempio, le “cronache”). Le fonti agiografiche francescane sono dunque da considerarsi quelle prodotte in prossimità e posteriormente alla canonizzazione e, dunque, alla proclamazione della santità di Francesco il cui obiettivo principale è quello di far conoscere la sua storia in quanto “santo”.
L’obiettivo di presentare un modello di santità genera una sostanziale uniformità nelle opere agiografiche, attraverso il ricorso ai precedenti, primo fra tutto quello del Cristo, spingendo spesso gli storici a non considerare le fonti agiografiche per la ricostruzione storica di un personaggio, laddove i suoi tratti individuali e le sue azioni siano state manipolate in termini edificatori dagli agiografi, dove possono costituire fonti inestimabili per l’evolversi dei modelli di santità.
Per l’agiografo, la garanzia di verità del fatto narrato risiede nella riproposizione di azioni, parole, circostanze codificate dalla tradizione; in cui la verità non si identifica con il concetto moderno, quanto con il riconoscimento dell’attuazione nella vita del santo del progetto divino.
Questa è la chiave di interpretazione di passi come quello in cui Tommaso da Celano, concludendo il racconto dell’acqua fatta miracolosamente scaturire da Francesco per dissetare un contadino, afferma: «non è certo cosa straordinaria se ripete azioni simili a quelle di altri santi chi è unito a Cristo per una grazia speciale» (1Cel., 46). Il richiamo implicito è da riferirsi ad analoghi gesti di Mosé o di San Benedetto: preoccupandosi di giustificare la somiglianza, Tommaso dimostra di avere consapevolezza del problema.
2. Un giovane come tanti altri
Francesco nacque nel 1182, da Pietro di Bernardone e dalla nobile Giovanna Pica. Il padre era un mercante che aveva fatto fortuna commerciando con la Provenza, in Francia ove sembra acquistasse le stoffe che commerciava nel Ducato di Spoleto, e sembra che proprio a ciò sia legata a scelta del nome del bambino, peraltro dopo esser stato già battezzato con il nome di Giovanni nella cattedrale di Assisi dedicata a San Giovanni Battista. Sembra che avesse almeno un fratello, Angelo.
L’agiografia francescana non ci offre molte notizie sulla sua infanzia e gioventù, sebbene sia logico ritenere che egli venisse istruito per affiancare il padre nel commercio familiare. Fece i propri studi presso i canonici della cattedrale di San Giorgio per dedicarsi, raggiunti i quattordici anni, all'attività commerciale paterna. Sembra che trascorresse la propria gioventù come i propri pari, in compagnia degli aristocratici assisiani, scendendo in campo nelle lotte della città contro Perugia che già nel 1154 era divampata con avverse scelte di campo rispettivamente ghibellina di Assisi e guelfa dei perugini. Di fatto, nel 1202 l’esercito assisiate venne sconfitto a Collestrada e sembra che Francesco fu tra i prigionieri che vennero rinchiusi nel carcere. Dopo un anno di prigionia, poté tornare a casa, ammalato, dietro il pagamento di un riscatto: secondo quanto narra Tommaso da Celano quest’esperienza spinse il nostro giovane ad iniziare un percorso di riflessone e di conversione che lo portò a mutare pensiero e vita, facendosi custode di «Gesù Cristo nell'intimità del cuore»[1].
3. La conversione
Tra il 1203 e il 1204 Francesco, mosso dall’incitamento di papa Innocenzo III alla riconquista di Gerusalemme, volle prendere parte alla Crociata, tentando di unirsi a Lecce alla corte di Gualtieri III di Brienne, e di lì partire con gli altri cavalieri per Gerusalemme: il desiderio di partecipare alla crociata va inserito in un immaginario collettivo entro il quale il recupero alla cristianità della Terrasanta costituiva una delle massime aspirazioni per un cristiano che volesse servire Dio e il popolo cristiano. Poco dopo la partenza, Francesco si ammalò e fu costretto a fermarsi a Spoleto, maturando la decisone di desistere dall’impresa. È difficile ricostruire con esattezza la sua conversione, anche attraverso il filtro agiografico: vi è chi sottolinea il significato che possa aver avuto la frustrazione della volontà di farsi cavaliere e partire per la crociata, altri, più correttamente, evidenziano la presenza sempre più forte e prepotente di una sensibilità che via via si apre alla compassione per i più deboli, per i deboli e i reietti lebbrosi e gli ammalati, per tutti coloro che vivevano ai margini della sua società e che vedeva intorno a sé.
Successivamente, Francesco disse di aver avuto due visioni notturne in quei giorni. Nella prima Francesco vide un castello pieno di armi, mentre una voce gli promise di farne il padrone. Nella seconda, la voce tornò a parlargli chiedendogli se fosse stato «più utile seguire il servo o il padrone»: quando il ragazzo rispose «il padrone», la voce gli chiese «allora perché hai abbandonato il padrone, per seguire il servo?»[2].
Le visioni giunsero sul filo di una profonda riflessione che spinse Francesco a mutare progetti e far ritorno alla propria città, cercando la solitudine della preghiera sino a lasciare che questo bisogno divenisse la sua principale istanza.
Il mutamento del suo comportamento non venne subito compreso nella sua radicalità e il padre cercò di riportarlo agli affari di famiglia, ma invano. Un giorno questi lo mandò a Roma per vendere una partita di stoffe, tuttavia la vista di molti poveri spinse il giovane non solo a dargli il ricavato della vendita, ma a scambiare le proprie vesti con un mendicante con il quale volle condividere la propria umanità, sino a chiedere l’elemosina davanti alla porta di San Pietro.
Oramai vicino alla morte, Francesco ritornerà sulla sua conversione, leggendola in termini di esigenza di fare ammenda per i propri peccati, traendo gioia da ciò che gli altri considerano vergognoso e umiliante, alla luce dell’esercizio della misericordia:
«Il Signore concesse a me Frate Francesco, d’incominciare così a fare penitenza, poiché essendo io nei peccati, troppo amaro mi sembrava vedere i lebbrosi, ma lo stesso Signore mi condusse fra loro ed io esercitai misericordia con loro. E partendomene, ciò che mi era apparso amaro mi fu convertito in dolcezza nell'animo e nel corpo. E poi tardai poco e uscii dal secolo»[3].
Queste manifestazioni di profondo ripensamento della propria vita trovarono il proprio culmine nel 1205, quando davanti al crocifisso della chiesa di San Damiano, da esso provenne una voce che per tre volte gli ripetè la frase oramai nota, «Francesco, va' e ripara la mia casa che, come vedi, è tutta in rovina».
Il comportamento del giovane mutò ulteriormente, esasperando il padre, preoccupato per la sua salute mentale. Un giorno Francesco prese quante più stoffe poté nel magazzino paterno per venderle a Foligno e donarne il ricavato al parroco di San Damiano affinché lo utilizzasse per riparare la piccola Chiesa che, nell’autunno successivo, dopo un mese di ritiro, vide maturare definitivamente la decisione di Francesco di allontanarsi dal mondo. Tornato ad Assisi, si scontrò con il padre che gli rimproverava di sperperare il denaro e i beni della famiglia, portandolo perciò davanti alle autorità. Francesco cercò allora il giudizio del vescovo Guido, dove davanti alla popolazione assisiana accorsa a vedere cosa accadesse, si spogliò dei propri abiti restituendoli al padre Pietro dedicando pubblicamente la propria esistenza a Dio, il «Padre nostro che sei nei cieli, perché in lui ho riposto ogni mio tesoro e ho collocato tutta la mia fiducia e la mia speranza»[4].
Nell’atto di pietas del vescovo che ricoprì subito il ragazzo per nasconderne la nudità agli occhi della gente, si lesse l’accoglienza di Francesco in seno a quella Chiesa che egli si prefisse di risanare e sostenere.
4. Una nuova vita al servizio di Dio
Ebbe inizio così il cammino del giovane verso la sua nuova vita. Nell’inverso del 1206 lo troviamo a Gubbio, accolto dall’amico Federico Spadalona che con lui aveva condiviso la prigionia perugina e, qui vestì il saio, rifiutando i ricchi abiti dell’amico, per trasferirsi poi presso il lebbrosario eugubino di San Lazzaro di Betania, mettendosi a servizio dei malati e degli infermi. Il contatto quotidiano con le miserie di questi bisognosi costituirono un’esperienza indelebile in lui.
In questi giorni lo vediamo spostarsi nelle campagne tra Gubbio e Assisi nella sua predicazione itinerante. Proprio nel contado di Gubbio avvenne l’episodio dell’incontro con il lupo, vicino alla piccola chiesa di Santa Maria della Vittoria. Ad Assisi Francesco si dedicò alla riparazione di alcune piccole chiese in rovina, come quella di San Pietro fuori le mura, quella della Porziuncola a Santa Maria degli Angeli e San Damiano.
Sono anni di vita solitaria, caratterizzati dalla preghiera, dal servizio offerto ai lebbrosi, dal lavoro manuale e dalla vita basata sulla carità dell’elemosina, nella povertà di ispirazione cristologica.
La sua rinuncia alla vita ed alle ricchezze secolari, accolta come follia da molti e celebrata da Francesco come motivo di gioia per la vicinanza al Cristo e a Dio.
Ma la sua aspirazione non trovò realizzazione in quegli angusti confini: la cronaca ci narra dell’ascolto di un passo del Vangelo secondo Matteo10, 5 segg. In cui si parla della missione affidata da Gesù ai dodici apostoli, il 24 febbraio 1208 nella chiesetta Porziuncola nella campagna di Assisi che gli fece cogliere la propria vocazione nella necessità di portare la Parola di Dio per le strade del mondo. Durante la sua predicazione nei pressi di Assisi si unirono a lui molte persone, venendo a formare il primo nucleo della comunità di frati che si riunì intorno a Francesco, tra di essi troviamo Bernardo di Quintavalle, un amico d'infanzia, Pietro Cattani, Filippo Longo di Atri, Angelo Tancredi, frate Egidio, frate Leone, frate Masseo, frate Elia da Cortona e frate Ginepro che lo sostennero ed aiutarono nell’attività di predicazione fuori dai confini umbri. Qui pochi brani del Vangelo di Matteo diedero la guida per la predicazione del Regno dei cieli cui Francesco si sentiva chiamato e chiamò a sua volta i primi compagni, senza recar con sé denaro, borse, né vestiti, né scarpe, né bastone per sorreggersi, entrando nelle case augurando la “pace” (Matteo 10, 7 ss.; 19, 21; Luca 9, 2 ss.). Queste furono le prime indicazioni che andarono a costituire la breve Regula di vita monastica che Francesco espose nel 1209 a papa Innocenzo III, insieme a dodici compagni In esse è facile cogliere la sostanza del programma di Francesco. Il papa concesse la propria approvazione orale per il suo «Ordo fratum minorum», grazie anche all’appoggio del vescovo di Assisi e del Card. Giovanni di San Paolo.
Erano anni in cui l’Italia e l’Europa erano attraversate da movimenti pauperistici a carattere ereticale che contrastavano ciò che la Chiesa era diventata, le sue ricchezze e le sue ipocrisie, ma l’ordine voluto da Francesco nasceva in seno alla Chiesa stessa che si proponeva di riformare dall’interno, con il proprio esempio e la propria abnegazione. In lui, dopo le prime esitazioni, Innocenzo riuscì a cogliere la via per dar voce alle tensioni ed al bisogno di partecipazione dei ceti più umili in seno alla Chiesa e non in suo antagonismo.
Si narra che papa Innocenzo III prese la decisione di approvare il nuovo ordine, impartendo ai frati la tonsura, in seguito ad un sogno in cui vide «la basilica lateranense esser già prossima alla rovina; la quale era sostenuta da un poverello, mettendole sotto il proprio dosso perché non cadesse»[5].
Tornati ad Assisi, i frati presero dimora in un edificio diroccato presso Rivotorto, sulla strada per Foligno poiché vicino all’ospedale dei lebbrosi. Le condizioni malsane del luogo costrinsero la piccola comunità a trasferirsi, l’anno dopo presso la piccola badia abbandonata di Santa Maria degli Angeli, in località Porziuncola loro concessa dall'Abate di San Benedetto del Subasio.
La popolarità di Francesco si diffuse e molti si unirono alla piccola comunità di frati che crebbe sempre più, tanto da manifestare l’esigenza, di impostare la vita comunitaria, di organizzare l'attività di preghiera, di rinsaldare l'unità interna ed esterna, di decidere nuove missioni, nella Pentecoste del 2017, in occasione del primo dei capitoli generali dell'Ordine, che da allora in poi si tennero ogni due anni.
In questo primo capitolo si posero le basi per l’espansione dell’Ordine in tutta Italia, organizzando l’attività di predicazione e di azione in sostegno dei poveri e dei diseredati, decidendo di inviare delle missioni in Spagna, Francia, Germania e in Siria.
5. L’incontro con il sultano: Francesco in missione per la pace?
Tale empito missionario non riguardava solamente l’Ordine in sé, ma la missione di predicazione cui lo stesso Francesco si sentiva chiamato, già da ungo tempo. Tra il 1212 e il 1213, dopo essersi recato a Roma, affidando la comunità minoritica a fra Pietro Cattani, aveva raggiunto ad Ancona per dirigersi, ma una tempesta gettò la nave ove si era imbarcato sulle coste dalmate, dalle quali fece ritorno in Assisi. Tra il 1214 e il 1215, cercò di raggiungere l’Africa attraverso il Marocco ma anche questa volta dovette desistere a causa di una grave malattia che lo colse mentre era in Spagna.
L’entusiasmo del futuro santo aveva mosso il cuore dei suoi confratelli che, dopo il Capitolo del 1217, sei frati minori tra i quali Bernardo riuscirono a raggiungere il Marocco dove trovarono però il martirio nel 1220.
Lo stesso Francesco non aveva rinunciato a porre egli stesso le basi per l’evangelizzazione della Terra Santa, tanto da tornare, dopo aver celebrato il secondo Capitolo generale dell’Ordine, ad Ancona dove si imbarcò per l’Egitto, nel 1219. Da due anni era iniziata la quinta crociata al cui seguito si pose Francesco e il suo compagno, frate Illuminato. Durante l’assedio di Damietta, i due frati ottennero dal benedettino Pelagio Galvani cardinale e vescovo di Albano, legato pontificio ivi presente, un salvacondotto, insieme con il permesso di potersi recare presso il campo saraceno per incontrare, disarmati e senza scorta, il sultano al-Malik al-Kāmil, nipote di Ṣalāḥ al-Dīn Yūsuf ibn Ayyūb (noto in occidente come il “Saladino”) per predicare in sua presenza al fine di operarne la conversione e porre fine alla guerra.
L’interpretazione di questo particola episodio della biografia di San Francesco non è semplice né univoca. Di fatto alla biografia si sovrappone l’agiografia, nel nostro caso, sostituendola, tanto da inserire un notevole filtro sulla sa azione e sulle vicende stesse narrate. La veridicità di molta parte della sua biografia è indiscussa per le molte testimonianze parallele (anche se non accolte nell’agiografia) e tuttavia, vi sono degli episodi controversi, primo fra tuti quello dell’incontro con il sultano.
Il rapporto tra Francesco e le crociate e con l’Islam è stato interpretato nei modi più svariati, oscillando dal sostegno all’intervento occidentale alla sua invalidazione.
Di fatto, al di là dei giochi di potere e delle meschinità mondane spesso correlate agli eventi storici che contraddistinsero in vario modo le diverse crociate, lo spirito della chiamata alla crociata si nutriva della medesima volontà di servire la causa cristiana di una vocazione religiosa. L’evangelizzazione dell’Islam e la liberazione dei luoghi santi dagli infedeli, correvano di pari passo nell’immaginario di una umanità quale quella duecentesca occidentale che cercava nuovi orizzonti per il proprio afflato spirituale. Alla prima motivazione, ovvero alla missione di conversione degli infedeli alla verità della Rivelazione cristiana va sicuramente ricondotto l’intervento di Francesco.
Altro discorso va fatto per la ricostruzione dell’episodio. L’episodio dell'incontro con il sultano ayyubide al-Malik al-Kāmil ci è giunto non solo attraverso le biografie francescane ma anche tramite altre testimonianze di poco successive, sia cristiane sia arabe. La versione fornitaci da San Bonaventura parla di maltrattamenti subiti ad opera dei soldati saraceni e la difesa, da parte di Francesco, dell'operato dei crociati parallelamente alla giustificazione della guerra agli islamici infedeli. Nella narrazione offerta da Tommaso da Celano, Francesco avrebbe suscitato una profonda ammirazione nel sultano, che lo trattò con rispetto e offrendogli ricchezze affinché rimanesse reso di lui. Secondo la narrazione agiografica prevalente Francesco subì anche la prova del fuoco, poi raffigurata in numerosi cicli pittorici: il futuro santo l’avrebbe proposta per determinare quale tra la religione islamica e quella cristiana fosse quella autentica. Molti storici nutrono dubbi sul ricorso all’ordalìa da parte di Francesco, in quanto di difficile collocazione rispetto ai gesti usuali ed alla sua personalità, forte ma sempre lontana da qualsiasi forma di violenza, pure in considerazione dell’atmosfera di rispetto che già dalla terza crociata si era instaurata tra i capi crociati e quelli musulmani.
Un’altra questione, molto più spinosa, è rappresentata dalla presenza e dall’azione di Francesco presso il sultano. Molte sono state le ipotesi sollevate. Il sempre più numeroso seguito e la fama del nostro assisiano e la fede incrollabile avrebbe spinto Innocenzo III e la Cura ad inviarlo in Egitto come proprio legato ufficioso per trattare con il sultano. La stessa facilità con ci avrebbero ottenuto il salvacondotto dal legato pontificio e l’ammissione al cospetto del sultano vengono interpretate come dei chiari indizi a favore di tale ipotesi che legge il viaggio di Francesco come una missione diplomatica segreta.
Altri hanno sconfessato come dietrologica questa interpretazione, attribuendo alla personalità carismatica di Francesco sia l’accesso al cospetto del sultano che la salvezza dei due frati dopo di esso.
Di fatto, la missione verso la Terra santa rientrava nell’empito evangelizzatore che andava prendendo sempre più rilievo nell’ordine minoritico e l’incontro con il sultano pure può agevolmente rientrare non solo nell’orizzonte del tentativo di conversione del capo dell’esercito islamico per condurre al cristianesimo il suo stesso popolo, ma soprattutto nell’ottica di trovare una soluzione di pace per risolvere la questione dei luoghi santi. Riconosciuto dal sultano come un “sant’uomo” per il suo intento di porre fine al sanguinoso conflitto in atto. Non dimentichiamo che al-Malik al-Kāmil aveva già proposto un accomodamento pacifico al legato pontificio Pelagio, offrendogli la restituzione di Gerusalemme e della Vera Croce, incontrandone però il rifiuto.
La storicità dell’incontro è indubitabile e lo è altrettanto l’incolumità dei due frati successivamente all’incontro che non deve aver avuto i toni dell’intransigenza da nessuna delle due parti, ma un reciproco rispetto, sicuramente legato anche alla profondità della fede dimostrata da Francesco. Di fatto sappiamo che poco dopo i due frati lasciarono l’Egitto per far ritorno in Italia. Alcune delle testimonianze relative all’incontro con il sultano al-Malik al-Kāmil ci parlano di una richiesta di prolungare la presenza del futuro santo presso la sua corte, anche dietro offerta di ricchi doni per onorarlo. Il fatto che Francesco abbia scelto, nonostante tale invito sintomatico quanto meno di un interesse da parte del sultano e la garanzia offertagli dal salvacondotto pontificio, lascia spazio a varie ipotesi. L’insuccesso della missione di evangelizzazione e conversione può aver reso inutile il prolungare la presenza in Egitto. Gli sviluppi che stava attraversando l’ampliamento della comunità minoritica e le problematiche connesse alla sua guida devono, in qualche modo, essergli giunte. In medietas stat virtus e con buona probabilità possono essere, verosimilmente, entrambe delle concause che hanno spinto Francesco e frate Illuminato a far ritorno in patria, senza che la loro presenza abbia apparentemente mutato nulla della situazione.
L’assedio di Damietta proseguì piegando la città, complice la mancata esondazione del Nilo, sino alla sua conquista, avvenuta nel 1218. Non si risolse però il conflitto se non nel 1221. Il fallimento dell’avanzata delle forze crociate condusse alla conclusione di un accordo pacifico, con la negoziazione di una tregua di otto anni.
6. Una guida per l’Ordine
Di fatto, in Italia lo attendeva una situazione complessa da gestire, ovvero il rischio di eterodossia che andava prendendo la direzione del nuovo ordine a causa dell’eterogeneità e dell’ampiezza ora raggiunta dalla comunità francescana.
Nell’autunno del 1220 la Curia guardava con preoccupazione agli sviluppi che andava assumendo il movimento francescano che non aveva ancora delle sedi stabili né, soprattutto, una disciplina che lo potesse inquadrare nell’organizzazione ecclesiale.
I primi seguaci di Francesco provenivano agli ambienti più disparati: laici e religiosi, analfabeti e uomini di grande cultura, asceti e uomini desiderosi di agire nel mondo. Ognuno aveva recepito in maniera diversa la chiamata all’apostolato di Francesco, laddove molto spesso si rendeva difficile distinguere coloro che erano soggiogati dalla sua personalità e quelli votati agli ideali da raggiungere che egli indicava.
Il loro entusiasmo avvicinava le folle cui offriva un’alternativa alla visione distaccata e formale del mondo ecclesiale tradizionale, ma si faceva sempre più pressante l’istanza di un controllo, pena lo snaturamento del messaggio originario.
Tutto ciò spinse Francesco a ritrarsi dalla guida dell’Ordine, preferendo essere il primo a dare l’esempio con l’esercizio della propria missione e affidandone il governo nel 1220 a Pietro Cattani. Alla sua morte, in occasione del successivo Capitolo Generale del giugno 1221, divenne suo vicario frate Elia.
Papa Onorio III approvò la «Regola seconda» della comunità minoritica nel 1223, con la bolla «Solet annuere». Più breve della prima Regula e più concreta essa è il frutto di un accurato e combattuto lavoro di revisione condotta dallo stesso Francesco con il sostegno del cardinale Ugolino d'Ostia (poi papa Gregorio IX), alla luce delle diverse istanze che lo pressavano, sia da parte di molte voci della stessa comunità minoritica, sia da parte della Curia che aspirava alla regolarizzazione ed all’integrazione piena nel corpo ecclesiale del nuovo ordine, stemperando certi toni intransigenti sulla povertà cui chiamava i propri confratelli ma chiedendo loro però una fedeltà assoluta alla Regola stessa ora stabilita definitivamente.
Francesco non voleva che il nuovo Ordine si adeguasse a regole già scritte come quella dei benedettini o quella degli agostiniani, ma volle offrire una Regola che rispecchiasse lo spirito con il quale si era formata la prima comunità dei suoi seguaci, che fosse cioè in grado di soddisfare contemporaneamente le proprie aspirazioni e le istanze della Chiesa.
7. La passione e la morte
La notte di Natale del 1223, Francesco volle rievocare la nascita del Cristo con una rappresentazione vivente. L’agiografia ci narra di un bambinello che prese vita tra le braccia dell’uomo durante la Messa. Di sicuro, sappiamo che il modo scelto per rievocare questo evento così straordinario eppure così familiare, venne accolto con tale e tanto favore dalle persone intervenute da dare l’avvio alla tradizione del Presepe.
La preoccupazione per le tensioni che iniziavano ad animare il futuro dell’Ordine e la difficoltà di dirigerlo verso quell’ideale chiamata cui egli stesso si era sentito parte durante la sua travagliata e profonda conversione, aggravarono le condizioni di salute di Francesco che nel 1224 ebbe il dono delle stigmate. L’ardente desiderio di vivere la passione del Cristo e farsi carico delle miserie del mondo per sostenerlo in un afflato di inestinguibile carità trovò manifestazione mentre si era ritirato in preghiera sul Monte della Verna, donatogli dal conte Orlando de' Cattani: su quel corpo già malato e reso debole dalle fatiche e dall’austerità, teso verso Dio nella preghiera, apparvero i segni sanguinanti del martiro di Gesù sulle mani, sui piedi e sul costato.
L’agiografia narra della visione di un Serafino crocifisso, giunta dopo quaranta giorni di digiuno e di preghiera, al termine della quale la condivisione partecipe della passione di Gesù si manifestò anche nel fisico di Francesco. Sembra ch’egli cercasse poi di nascondere tali segni, ma che alla sua morte essi divennero il simbolo della condivisione fisica delle pene di Cristo di cui gli uomini erano chiamati a condividere non solo il trionfo sul peccato e sulle passioni ma anche il dolore delle miserie umane. Questo portò molti a definirlo «alter Christus».
Rientrato a Fonte Colombo e a Greccio, trovò conforto nell’ardente carità che lo sosteneva, adoperandosi per diffonderne il messaggio come poteva, anche attraverso le lodi espresse nel Cantico delle creature che compose tra il 1224 e il 1226, pur maturando l’esigenza di ritirarsi sempre più spesso in preghiera solitaria nei luoghi limitrofi.
Ormai prossimo alla morte, Francesco fece ritorno alla Porziuncola, dove chiamò intorno a sé i suoi compagni, mandando a chiamare anche al sa protettrice romana Giacoma de' Settesoli che era invece, già in viaggio per raggiungerlo. Nel suo testamento, Francesco riversò tutto ciò che non era rientrato nella Regola, ma che ne costituiva il corollario, chiedendo ai frati di rispettarlo insieme a quella, di considerarli come un unico testo da interpretare per proseguire il loro cammino, una volta che egli fosse tornato a Dio. La morte lo raggiunse la sera del 3 ottobre 1226 e il 16 luglio 1228 venne canonizzato.
[1] Tommaso da Celano, Vita prima di San Francesco d'Assisi, parte I, cap. III, pp. 328.
[2] Ivi, pp. 586-587.
[3] Tommaso da Celano, Vita secunda, cit., FF, p. 593.
[4] Bonaventura da Bagnoregio, Legenda maggiore, II, 4, in Fonti francscane. Editio minor.Scritti e biografie di San Francesco d’Assisi, Cronache e altre testimonianze del primo secolo francescano. Scritti e biografie di Santa Chiara d’Assisi, Assisi, Editrici francescane, 1986, pp. 527-528.
[5] Legenda Maior, III, 10.
