Domenica 17 settembre
Già nell’Antico Testamento veniva inculcata al popolo di Dio la necessità, per l’uomo, di perdonare i propri fratelli per poter aspirare al perdono di Dio. Rancore ed ira non si confanno a chi ha bisogno della misericordia di Dio, che egli è obbligato ad imitare, e il pensiero di dover sottoporsi al giudizio divino dopo questa vita deve indurre ad essere generosi col prossimo.
Gesù ha insistito con fermezza sulla legge evangelica del perdono. A Pietro, il Maestro dice che il perdono del prossimo non deve avere limiti e deve essere dato senza calcolo e senza stanchezza come indica la cifra simbolica di settanta volte sette. La parabola aggiunge che non c’è proporzione tra ciò che Dio perdona a noi e ciò che noi dobbiamo perdonare agli altri.
E non si tratta di perdonare a malincuore o a fior di labbra, ma “di cuore”, con sincerità e profondità di sentimento. Chi si sottrae al dovere del perdono è incapace di una vera intelligenza e pratica religiosa. Rifiutare il perdono significa non conoscere il Padre celeste, ripudiare il Vangelo nella maniera più irragionevole e brutale e non tenere in nessun conto la grazia che ci vien data per vincere la nostra debolezza.
Nella vita e nella morte, il cristiano non cerca la propria soddisfazione personale, ma quella di Cristo, al quale la nostra vita e la nostra morte appartengono perché della vita e della morte egli è il Signore.
Il fedele è intimamente associato per la sua salvezza, alla morte e alla risurrezione di Cristo, quindi è responsabile verso di lui della sua condotta cristiana.
Dal Vangelo secondo Matteo (18,21-35)
In quel tempo, Pietro si avvicinò a Gesù e gli disse: “Signore, se il mio fratello commette colpe contro di me, quante volte dovrò perdonargli? Fino a sette volte?”. E Gesù gli rispose: “Non ti dico fino a sette volte, ma fino a settanta volte sette. Per questo, il regno dei cieli è simile a un re che volle regolare i conti con i suoi servi. Aveva cominciato a regolare i conti, quando gli fu presentato un tale che gli doveva diecimila talenti. Poiché costui non era in grado di restituire, il padrone ordinò che fosse venduto lui con la moglie, i figli e quanto possedeva, e così saldasse il debito.
Allora il servo, prostrato a terra, lo supplicava dicendo: “Abbi pazienza con me e ti restituirò ogni cosa”. Il padrone ebbe compassione di quel servo, lo lasciò andare e gli consonò il debito. Appena uscito, quel servo trovò uno dei suoi compagni, che gli doveva cento denari. Lo prese per il collo e lo soffocava, dicendo: “Restituisci quello che devi!”. Il suo compagno, prostrato a terra, lo pregava dicendo: “Abbi pazienza con me e ti restituirò”. Ma egli non volle, andò e lo fece gettare in prigione, fino a che non avesse pagato il debito.
Visto quello che accadeva, i suoi compagni furono molto dispiaciuti e andarono a riferire al loro padrone tutto l’accaduto. Allora il padrone fece chiamare quell’uomo e gli disse: “Servo malvagio, io ti ho condonato tutto quel debito perché tu mi hai pregato. Non dovevi anche tu aver pietà del tuo compagno, così come io ho avuto pietà di te?”. Sdegnato, il padrone lo diede in mano agli aguzzini finchè non avesse restituito tutto il dovuto.
Così anche il Padre mio celeste farà con voi se non perdonerete di cuore, ciascuno al proprio fratello”.