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Regesto storico della diocesi di San Marco Argentano e Scalea

Sommario

Introduzione - La Diocesi San Marco Argentano e Scalea

Malvito

San Marco Argentano

Santa Maria della Matina

Scalea

 

 

Introduzione - La Diocesi San Marco Argentano e Scalea

 

La diocesi di San Marco Argentano e Scalea, attualmente suffraganea dell’arcidiocesi di Cosenza e Bisignano vanta una storia dalle radici lontane.

Attualmente la diocesi si estende nella parte settentrionale della provincia di Cosenza, sul versante adriatico e conta 64 parrocchie, suddivise in tre vicarie, ovvero San Marco Argentano che ospita la sede vescovile, Scalea e Belvedere.

L’erezione a diocesi di San Marco risale al 1070 ca., poco dopo la conquista normanna dell’area, sostituendo e annettendo, appena un secolo dopo, le antiche sedi di Malvito e Cirella.

Con la bolla De utiliori del 27 giugno 1818, papa Pio VII unì aeque principaliter la diocesi a quella di Bisignano, dopo otto anni di vacanza della sede. Una ventina di anni dopo, entrarono a far parte della diocesi argentana anche le parrocchie di Cetraro e di Fella, feudi precedentemente afferenti all’abbazia di Montecassino.

La parrocchia di Cetraro era originariamente parte della diocesi di Malvito, al momento della sua conquista da parte di Roberto il Guiscardo. Inserita nel dotario che il condottiero creò per la seconda moglie[1], la principessa longobarda Sichelgaita, venne da questa donata all’abbazia di Montecassino, alla morte del Guiscardo[2].

Nuove variazioni territoriali vennero apportate dalla bolla Quo aptius di papa Giovanni Paolo II, del 4 aprile 1979: con essa venne posta fine all’unione con Bisignano e venne altresì aggregato alla diocesi argentana il territorio del vicariato di Scalea, precedentemente afferente alla diocesi di Cassano allo Ionio sotto i Normanni e, prima ancora, alla diocesi di Policastro sotto la dominazione longobarda.

Da questo momento la diocesi assunse l’attuale denominazione, senza subire ulteriori variazioni, se si eccettua l’annessione della parrocchie di Acquappesa, Intavolata e Guardia Piemontese del 10 novembre 1997, precedentemente soggette all’arcidiocesi di Cosenza Bisignano.

L’ultima menzione degna di nota si avrà il 30 gennaio 2001, nella bolla Maiori Christifidelium di Giovanni Paolo II, con la quale cessò la soggezione diretta alla Santa Sede che perdurava sin dalle origini e l’assunzione della diocesi di San Marco Argentano e Scalea nella provincia ecclesiastica dell’arcidiocesi di Cosenza-Bisignano.

 

 

Malvito

 

Dal colle su cui si poggia il suo centro storico, Malvito si affaccia sull’alta valle dell’Esaro, sul versante interno della Catena Costiera dell’Appennino calabro. Le sue origini risalgono tra la fine del VIII e gli inizi del IX, quando Paolo Diacono la individua come uno dei centri più importanti dell’Italia meridionale[3].

Le prime attestazioni epigrafiche che riguardano la diocesi risalgono all’X secolo d.C. e interessano la diocesi di Malvito che sotto la dominazione longobarda fu sede di gastaldato e diocesi, raggiungendo il massimo splendore sotto la dominazione normanna[4], quando venne elevata a contea nel 1083 come attestato da fonti diplomatiche[5].

Malvito viene menzionata tra le diocesi suffraganee di Salerno, insieme a Bisignano e Cosenza, nella Chronica de Civitate Salerni tra il giugno e l’ottobre 983,

«Erigit metropoliam Salerni, sub Amato episcopo, cum aliquibus suffraganeis, inter quos, inter quos episcopi Cusentiae, Bisiniani et Malbiti»[6].

 

La suffraganeità di una diocesi implicava che il suo vescovo non avesse, almeno inizialmente, giurisdizione oltre i confini cittadini e dipendesse dall’arcivescovo metropolita, cui sottostava anche attraverso obblighi di ordine canonico[7].

Si noti che le tre Chiese di Cosenza, Malvito e Bisignano erano situate nella valle del Crati e insieme ad altre suffraganee come Acerenza, che si trovava nella Puglia bizantina, e Nola, nel territorio conteso di Napoli, costituivano, di fatto, dei territori ove difficile era il controllo della chiesa di Roma e il prole sotto la giurisdizione della nuova arcidiocesi costituiva una forte affermazione di principio da parte del pontefice.

Proprio in quell’anno la Chiesa di Malvito era stata elevata a diocesi da Benedetto VII. Condizione ribadita da un altro documento datato 9 luglio 989:

«Amato, Archiepiscopo salernitano, confirmat iura metropolitana in suffraganeos, “acerentinum, simul etiam et episcopatum Nolanum et Bisinianensem et episcopatum Malvittanum et episcopatum Cusentie, cum omnibus parochiis et adiacentiis earum, sicut vestra iam concessio continet, quae in ecclersia sancte dei genitricis Marie et beati Matthei apostoli et evangeliste, cuius corpur detinetis, vobis vestrisque successoribus concessa est. Dat. quarto idus Julii anno Pontif. IIII in mense et indictione suprascripta»[8].

 

Malvito appare anche in una bolla di papa Giovanni XV, datata al 994. Si tratta di un atto finalizzato a delimitare la provincia ecclesiastica di Salerno, da poco elevata al rango di arcidiocesi metropolitana[9].

Il feudo di Malvito, intanto, venne istituito in contea e in un diploma datato 1083 viene menzionato il primo conte: Roberto Conte di Scalea e Malvito. si trattava di una donazione fatta dal conte, appunto, all’abate Uberto di Santa Maria di Camigliano[10].

In una successiva bolla papale del 1012 la ritroviamo citata ancora tra le diocesi suffraganee salernitane, insieme a Paestum, a Cerenza, Nola, Bisognano, Cosenza e Conza.

Si rileva, tuttavia, che la dipendenza dalla metropolia di Salerno doveva pure rimanere puramente nominale, se all’epoca dei documenti, si considera come tali diocesi suffraganee fossero contemporaneamente considerate dipendenti direttamente da Bisanzio.

Queste Chiese erano, infatti, oggetto di contesa fra i patriarchi di Costantinopoli e i papi di Roma. Già nel 901-2 erano state istituite dalla Chiesa d’Oriente le metropolie di Reggio, con suffraganee Cosenza, Bisignano, Malvito, e di Santa Severina. Nel 968, il patriarca Polìeutto conferì al vescovo di Otranto, nuovo metropolita, la facoltà di consacrare vescovi ad Acerenza, Gravina, Matera, Tricarico, Tursi. Dio contro, nel 983, Benedetto VII sottomise al vescovo di Salerno, da lui investito delle prerogative arcivescovili, le diocesi di Paestum, Conza, Nola, Cosenza, Bisignano, Malvito, Acerenza con un disposto che fu poi confermato nel 1012 da Sergio IV, nel 1016, 1019 e 1021 da Benedetto VIII, nel 1047 da Clemente II e, nel 1051, da Leone IX. Papa Stefano IX, guadagnandosi l’appoggio dei Normanni, riuscì a porre le basi per attuare la “riconquista” della Chiesa di Roma dei territori calabri: il 22 ottobre del 1067, sotto papa Alessandro II, l’arcivescovo Alfano elevò alla dignità vescovile il monaco cavense Pietro Pappacarbone e lo inviò a Policastro con una lettera pastorale, per mano del monaco, in cui si disponeva un radicale mutamento di rito nelle parrocchie e nei monaste­ri della nuova diocesi, benché i disordini che ancora travagliavano quelle terre gli impedirono di sostarvi a lungo, tanto è vero che solo nel 1079 la sede episcopale trovò il suo assetto definitivo con il ritorno di San Pietro vescovo[11].

Questo non impediva agli arcivescovi di Salerno di ribadire la propria giurisdizione sulle sopradette diocesi come testimonia tutta una serie di documenti datati (e databili) dal 25 marzo 994 al 1101-1106:

«Grimoaldum, Archiepiscopum Salernitanum, pallio donatur, Paestani, Acheruntini, Nolani, Bisinianensis, Maluttanensis, Cusentini episcopatum metropoliatam sancit. Dat. Rome Octavo Kal. Aprilis Pont. anno VIII, Ind. VII.

Quia vestri accepti beneficii memores»[12];

 

«Michaeli archiepiscopo Salernitano, omnia iura et privilegia confirmat […] “et simul etiam episcopatum Bisinianensem et episcopatum Maluttanensem (var. Malvittensem) et episcopatum Cusentiae cum omnibus parochiis suis. Dat. XV Ksal. Iulii, Ind. X, pontif. Anno III – Quia vestri accepti beneficii»[13];

 

«Amatum, electum archiepiscopum Salernitanum, confirmat et ecclesiae eius iura et privilegia similiter confirmet, “et episcopatum Bisinianensem et Malvitanum et Cusentiunum”. Dat. VI Kl. Januarii Ind. III, Pont anno VIII.

Convenit apostolico moderamini»[14];

 

«Ecclesiae Salernitane privilegia confermat, rogatu Amati archiepiscopi […] episcopatum Bisinianensem et Malvitanum et Cusentinum – Quia vestri suscepti»[15];

 

«Iohanni, archiepiscopo Salernitano, omnia iura et privilegia confrimat metropolitanae suae ecclesiae: “episcopatumMalvitanum […] simulque etepiscopatum Bisinianensem et episcopatum Cusentiae cum omnibus parochis et adiacentiis eorum. Dat. XII Kal. Martii, anno II, Ind. XV pontif. an.I. – Quotties ita contigit»[16];

 

All’epoca di questo documento, datato 18 febbraio 1047, la diocesi di Cosenza risulta soggetta alla giurisdizione dell’arcidiocesi di Salerno nelle fonti latine. Nelle fonti costantinopolitane, essa risulta egualmente soggetta a quella di Reggio Calabria Entrambe le giurisdizioni, pur se in contrasto, di fatto, rimanevano puramente nominale, in quanto dalla documentazione d’archivio risulta che la diocesi di Cosenza agisse in maniera del tutto autonoma[17]. La diocesi di Malvito risultava, invece, suffraganea di quella Salernitana a tutti gli effetti, come ribadito dalla successiva documentazione:

«Ecclesiae Salernitanae bona, iura metro politica et possessiones, petente Johanne archiepiscopo, confirmat […] “malvitanum et Cusentium simulque episcopatum Bisinianensem”. Dat. XI Kal. Augusti ano Tertio, Ind. Quarta.

Officium sacerdotale assumere»[18];

 

«Alphano, archiepiscopo Salernitano, omnia iura et possessiones confirmat […] “et eligere et ordinare episcopo et sacerdotes in cosentia […] et in Visinianensiepiscopatu et in Malvito […] et in Martirano et in Casiano[19]. Dat. Romae IX Kal. Aprilis, Ind. IV Pontif. Anno I.

Officium sacerdotale assumere»[20].

 

Situata ai confini dell’Impero bizantino, sappiamo che intorno al XI secolo  Malvito fu un centro attivo di riproduzione e conservazione libraria grazie all’opera di una nutrita comunità di monaci greci[21].

In un documento databile tra il 1101 e il 1106, sappiamo che l’arcivescovo salernitano Alfano concede il privilegio di dipendenza diretta (?) dalla Sede Apostolica alle Chiese di Nola e Malvito:

«Alfano, Archiepiscopo Salernitano, concedit, propensiori affectu, Noalanam et Malvitanam Apostolica Sedis iuris ecclesias, salvo de cetero, si habet, Sedis Apostolicae privilegio – Sedis apostolice liberalitas»[22].

 

Nel XII sec. le diocesi di Cosenza, Malvito, Bisignano e Acerenza si renderanno autonome da Salerno. In una annotazione databile tra il 1130 e il 1144 il Liber Censuum registra, infatti, la loro dipendenza diretta dalla Santa Sede:

«Nomina episcopatum pertinetium ad Sanctam Sedem: In Calabria: Cassanen, Bisinianen, rossanen, Sancta Severina, Cusentia, Malventus, Neocastrum, Trium Tabernarum, Squillatium, Regium, Miletum, Sancti Marci»[23].

 

Divenuta sede episcopale Malvito,  in seguito all’arrivo dei Normanni, anche per motivazioni di ordine militare, subì un processo di destrutturazione della propria circoscrizione ecclesiastica che portò, sul finire del XII sec., alla soppressione della sede episcopale e al suo trasferimento a San Marco Argentano. Tuttavia, alla fine del XII secolo la città perse la propria importanza strategica e la stessa sede vescovile in favore di San Marco Argentano.

Sotto gli svevi Malvito fu città demaniale regia[24], come attesta il diploma di Federico II del luglio 1224 siglato a Siracusa.

Quando, nel 1266, Carlo I d’Angiò sconfisse a Benevento l’ultimo re di Svevia, conquistando il Regno di Sicilia la città perse la demanialità regia e venne affidata in Nicola de Ortas nel 1269.

Un documento datato 1515 fa riferimento ad un episodio controverso della storia di Malvito. Si tratta della leggenda dell’uccisione del vescovo Abbondanzo da parte dei malvitesi:

«Plebs Malvitan., quae ante 160 annos episcopum Abundantium, per sacrilegii crimen, in dolio incluserat et in mare precipitare praesumpserat ideoque in interdicti et excommunicazionis poenam incurrerat, cuius cathedralis ad S.Marcum traslata fuerat, absolvitur. Dat. romae…. – Quod olim maiores vestri»[25].

 

La leggenda narra che i malvitesi, abbiano rinchiuso in un barile e gettato in mare il vescovo Abbondanzio, reo di sacrilegio. Per questo atto, a sua volta sacrilego, il documento narra che i cittadini vennero scomunicati nel 1355 e la diocesi soppressa: con questo atto, ora, essi ricevono l’assoluzione per il loro crimine.

Già Russo presentava l’episodio come una “favola”[26] e la datazione del documento ora osservato ce lo conferma: in realtà, Malvito non era più sede vescovile già dalla fine del XIV, come testimonia la registrazione della decima del 1324[27], nella quale la città risulta afferente alla diocesi di San Marco e l’evento stesso non sembra essere mai realmente accaduto.

 

Pochissime le attestazioni relative all’antica sede diocesana di Cirella, forse identificabile con la sede del vescovo  Romanus Cerellae citata nel sinodo di Roma del 649 d.C.[28].

 

San Marco Argentano

 

Una tradizione ormai consolidata[29] la identifica con l’Argentanum dei Bruzi citata da Tito Livio nelle Historiae Romanae[30] (IV sec.) tanto che nel 1862 al nome San Marco fu aggiunta, con delibera, la specificazione “Argentano”.  Secondo alcuni storici[31], San Marco sarebbe da considerarsi erede dell’antica diocesi di Tempsa.

Le prime notizie certe su San Marco risalgono però al X secolo, quando la città venne occupata dai normanni che dal XI secolo avvieranno la rilatinizzazione della Calabria, sancendone il reinserimento nell’occidente europeo.

La sconfitta nella battaglia di Civitate della coalizione di Suebi, italici e Longobardi voluta da papa Leone per contrastare i Normani di Umfredo di Altavilla, avvenuta il 18 giugno 1053 aprì, infatti, la strada al riconoscimento delle loro conquiste nel meridione avvenuta nel 1059. Papa Leone venne fatto prigioniero e tenuto segregato, pur nel massimo rispetto, a Benevento, da dove, nei nove mesi successivi emanò una serie di atti favorevoli ai Normanni, culminati nel riconoscimento delle loro conquiste attraverso l’investitura feudale delle due casate degli Altavilla e dei Drengot, avviando con esse un’alleanza che avrà importanti conseguenze. La Contea di Puglia venne assegnata a Roberto d’Altavilla detto il Guiscardo ed il Principato di Capua a Riccardo dei Drengot, al cui figlio Giordano venne riconosciuta la signoria di Gaeta.

Dopo essere stati riaccolti in seno alla chiesa[32], Umfredo I d’Altavilla divenne vassallo della Santa Sede, schierandosi a suo favore nelle lotte contro Bisanzio e l’imperatore tedesco e lo stesso avvenne del Guiscardo che s’impegnò altresì a proteggere la Chiesa e a recuperare la cosiddetta Regalia Sancti Petri in Puglia e Basilicata, guadagnandosi poi il titolo di Duca di Puglia, Calabria e Basilicata[33]. Ma per il riconoscimento definitivo delle loro conquiste, i Normanni dovettero attendere il Trattato di Melfi, stipulato il 24 giugno 1059. Stipulato alle soglie del Concilio di Melfi[34], questo trattato segna il rovesciamento della politica papale: il vecchio e potente nemico diviene ora l’alleato principale nell’imminente scontro con il vecchio alleato, il Sacro romano Impero, nella lotta per le investiture[35].

I capi normanni, ora vassalli della Chiesa, si impegnarono a proteggere la Chiesa dalle interferenze dell’Impero di Germania e a sostenere con le armi i decreti conciliari sull’elezione dei futuri pontefici, nonché di sostenere tutti gli obblighi che il rapporto di vassallaggio implicava (versamento di tributi, ecc.).

Inoltre, legittimando il dominio delle aree già assoggettate, il papa concesse ai normanni anche l’investitura di quei territori della penisola che, di fatto, erano ancora sotto il dominio bizantino, longobardo e saraceno avallandone la futura conquista. In tale contesto Roberto I di Altavilla si impegnava a riportare le Chiese alla soggezione alla Chiesa di Roma, avviando un processo di latinizzazione del rito religioso in tutte le diocesi sottratte ai bizantini[36].

Poco dopo intervenne il Concordato di Melfi, con il quale Roberto di Altavilla (il Guiscardo) e Riccardo I di Aversa siglarono con il pontefice un accordo che prevedeva la donazione della città di Benevento ed i territori limitrofi alla Santa Sede[37].

In questo contesto si colloca la profonda opera di ristrutturazione delle province ecclesiastiche di Capua Salerno e Benevento, con la creazione di nuove diocesi e nuove province ecclesiastiche.

All’epoca della fondazione di S.Maria della Matina (1065) sappiamo che San Marco non era ancora sede vescovile, in quanto presieduta dal vescovo di Malvito, Lorenzo e dal vescovo di Rapolla, Ottone. Se questo può costituire un terminus post quem, si può individuare un ulteriore terminus, questa volta, ante quem, nella bolla di Urbano II a favore della Certosa di Santa Maria della Torre, datata «Apud Monasterium S. Marie de Matino, in diocesis civitatis sancti Marci anno Dominice Incarnationis MXCII, pridie idus octobris, indict. I»[38], ovvero il 24 ottobre 1092.

Probabilmente al Guiscardo è da imputare l’erezione a diocesi di San Marco: avendone fatto il centro delle sue operazioni militari e amministrative dal 1048 al 1085, difficilmente poteva tollerare la sua sottomissione alla giurisdizione del vescovo di Malvito, così come il conte Ruggiero, il quale aveva fissato la propria residenza a Mileto, la volle sottrarre alla giurisdizione del metropolita, dichiarandola immediatamente soggette alla Santa Sede anche per una questione di prestigio[39].

Quanto alla latinizzazione del clero bizantino, i normanni seguirono più strade, dalla sostituzione dei vescovi ortodossi con prelati di sicura fiducia alla sottomissione dei monasteri all’autorità feudale di vescovi cattolici, dall’erezione di chiese e monasteri fedeli a Roma  ad atti di sostanziale tolleranza che si concretizzarono in una politica più generale di conciliazione e riassorbimento graduale della Chiesa greca in quella latina[40]

Nel 1157 Guglielmo è «episcopus Sancti Marci», come testimonia la sua firma in calce ad un atto di quell’anno[41]. Sempre nel 1157 lo troviamo far parte di una giuria riunita a Cassano per giudicare, secondo le leggi normanne le varie controversie del territorio circostante: nello specifico, si trattava di dirimere la questione del legittimo posseso dell’abate della Matina, Leone, di una tenuta situata a Sagitta, donata da Mabilia, figlia di Roberto il Guiscardo e moglie di Guglielmo di Grantmesnil. In tale contesto, il vescovo di San Marco rappresentava la più alta autorità ecclesiastica, accanto al delegato del re Guglielmo II ed ai baroni e personalità di rilievo dell’area cassanese[42].

Un successivo documento del 1171[43] reca la firma del vescovo Ruben, verosimilmente succeduto a Guglielmo. Il vescovo recava così la propria autorizzazione alla vendita della tenuta di Pantano, nel territorio di Cassano, da parte di tale Manso Salernitano e di sua moglie Guttualda all’abate dell’Abbazzia di Sambucina, Domenico, per la somma di 300 tarì. Accanto a quella del vescovo troviamo la forma dell’Arcidiacono Umfredo, che gli succederà poi sul seggio vescovile.

Lo stesso vescovo siglerà un altro atto del 1183[44], questa volta relativo alla permuta di un terreno in località Acquaviva, ceduto dall’abate della Matina, Gisfredo, a fronte dell’acquisizione di un altro terreno in località S.Senatore. Conti ipotizza che la permuta fosse frutto dell’interesse dell’abate ad acuisire un terreno adiacente alla piccola chiesa cosiddetta “dei Luoghi Santi”, poco sotto all’Episcopio[45].

Il nome del vescovo Umfredo appare per la prima volta , insieme a quello di Soffrido, vescovo di Cassano, in calce ad una donazione di beni fatta dal conte Ogerio di Brahalle e dalla contessa sua moglie Basilia, alla Chiesa di S.Maria delle Fonti per la costruzione di un monastero di monaci basiliani, in data 1193. Nell’atto di donazione si concede agli uomini di Brahalle libera facoltà di conferire sé stessi con mobili e stabili al monastero «in vita sua vel in testamento», fatta eccezione per gli «angariis»[46] che fossero «de servitio Dominorum vel Baronum»[47]. Accanto ai conti di Brahalle appaiono tra i benefattori del neonato monastero, Rainaldo del Vasto[48], conte di San Marco[49].

In un documento di particolare rilievo per San Marco troviamo il nome del vescovo che succedette a Umfredo, Nicola[50]. L’atto, datato 1205, riguarda la donazione della tenuta Sprandelli all’abbazia della Sambucina, fatta pro anima sua dal ricco Oliviero Allerio. Il documento è interessante per vari motivi. In primo luogo, esso porta la firma del già incontrato Rainaldo del Vasto, conte di San Marco, la cui autorità rientra nel più ampio quadro dell’affidamento della castellania di S.Marco ad un membro della famiglia di Ruggiero di Sicilia, quando questi riuscì a prevalere nella lotta per la successione del Guiscardo, tra Ruggero Borsa, figlio della seconda moglie Sichelgaita, e Boemondo, figlio della prima moglie Alberada[51]. In tale frangente, la città di San Marco si trovò a dover garantire al duca di Borsa che il castro rimanesse nelle mani della famiglia di ruggiero, almeno finché questi fosse in vita, e non venisse consegnato nelle mani di Guglielmo di Grantmesnil[52]. In seocndo ed ultimo luogo, la donazione fatta all’Ordine dei Cistercensi ci dà la misura della decandeza dell’ Ordine Benedettino nell’area della diocesi di San Marco: di lì a poco, infatti, S.Maria dela Matina sarà affidata ai Cistercensi della Sambucina.

Un documento del 9 aprile 1209 ribadisce, dietro richiesta dell’abate Bernardo, la legalità di una serie di donazioni e concessioni fatte al monastero della Sambucina, tra le quali anche la tenuta Sprandelli:

«Ad petitionem Bernardi abbatis et conventus monasterii S.Mariae de Sambucino confirmat eidem monasterio concessionem feudi, dicti de Palagano et venerea existentes in temi mentis, factas a Friderico rege Siciliae, et tenimentum dictum Chianetti in teritorio Montis Alti et culturam de Pantano factam ab anfuso, comite Tropeae, et donationem tenimenti de Spandello in territorio Sancti Marci, factam ab Oliverio Alerio. Dat. Laterani V idus aprilis Pont. anno duodecimo.

Solet annuere Sedes apostolica»[53].

 

Nel 1216 il nuovo vescovo di San Marco, Andrea, è presente alla consacrazione del duomo di Cosenza. Poco dopo, in qualità di commissario Apostolico pronuncerà una sentenza a favore dell’Archimadrita di S.Maria del Patir, dell’Ordine di S.Basilio, contro il monastero di s.Maria della Matina e della Sambucina[54]. La lite verteva sul testamento di Belprando, villano della Matina, il quale aveva pattuito la proprietà di una vigna alla Chiesa del Patir, alla propria morte. La donazione era da considerarsi nulla secondo l’abate della Matina, viceversa, il vescovo di San Marco respinse tale tesi[55].

Lo stesso vescovo Andrea deve aver sottoscritto un altro documento del 21 novembre 1216 in cui si si dispone, come ruichiesto dal IV Concilio Lateranense di destinare parte dei proventi ecclesiastici alla nova impresa in Terra Santa decisa dal Concilio, di fatto la quinta Crociata:

«Panormitano archiepiscopo et suffraganeis eius: ut iuxta decretum Concili Lateranensis omnes clerici tam subditi quam prelati vicesima ecclesiastico rum proventum usque ad triennium nunzi, ad id destinatis, in subsidium Terrae Sanctae solvant. Dat. rome, apud Sanctum Petrum, IX kal. Dicembri, Pont. an. Primo – Inter cetera.

In e.m. Rhegino archiepiscopo et suffraganeis eius et Magistris eiusdem provincie et Cantori et Archidiacono Rhegino; Militensi episcopo et Magistris eiusdem dioc. et Decano, Archidiacono et Cantori Militensibus; Cusentino archiepiscopo et suffraganeis eius et eisdem Magistris eiusdem provincie et Decano et Archidiacono Cusentin.; Rossanensi archiepiscopo et suffraganeis eius et Magistris eiusdem provincie; Bisinianensi episcopo et Magistris eiusdem dioc. et Decano, Archidiacono et Cantori Bisinianen.; Archiepiscopo Sancte Severine et suffraganeis eius et Magistris eiusdem provincie et Decano Sancte severine; Episcopo sancti Marci et Magistris eiusdem dioc. et Decano, Archidiacono et Cantori sancti Marci»[56].

 

Il Concilio aveva deciso l’indizione di una una Crociata che Federico II si era impegnato a sostenere nel 1215, in occasione della sua incoronazione come Rex Romanorum. Le continue procrastinazioni del re svevo ritardarono la partenza sino al giugno del 1217. In quella data il re Andrea II d’Ungheria e il duca Leopoldo VI d’Asburgo, dopo aver accolto l’incarico di papa Onorio III, partirono alla volta dell’Egitto[57].

Il terremoto del 1221, aggiungendo ingenti danni ai precedenti del terremoto del 1184, aveva reso quasi inagibile l’abbazia cistercense di Santa Maria di Sambucina. Papa Onorio II diede perciò mandato al vescovo di San Marco, Andrea, ed all’arcivescovo di Cosenza, Luca, di stendere una relazione sulla possibilità di trasferire i religiosi nel monastero della Matina. Il 29 ottobre viene concesso il trasferimento[58]. Entrambi i monasteri devono aver sofferto il sisma, ma il monastero della Sambucina doveva aver avuto la peggio, se come si legge nel documento del vescovo Andrea e dell’arcivescovo Luca la Sambucina è indicata come ridotta a grancia, ovvero come luogo ove era possibile abitare e lavorare solo nei mesi estivi.

La decisione papale venne poi avallata dall’imperatore Federico II, come si deduce dal privilegio concesso all’abate della Sambucina, bono, datato febbraio 1222:

«Privilegium domini imperatoris Frederici secundi de traslatione monasterii Sabucine ad monasterium Matinense propter runa dicti monasterii Sabucine et monasteri Matinensi»[59].

 

Il trasferimento effettivo deve essere avvenuto pochi mesi dopo, se in un documento datato 27 maggio 1222 il vescovo Andrea e l’arcivescovo Luca si preoccupano del sostentamento e dei beni relativi al nuovo accomodamento:

«Lucae Archiepiscopo cusentino et Andreae episcopo Sancti Marci. Mandat ut M., quondam abbati monasterii S.Mariae de Sambucino, traslato monasterio, provideat ut commode sustentetur. Ipse vero quae habet de bonis ipsius monasterii abbati et conventui sine difficultate resine. Dat. Alatri, VI kal. Iunii, Ponti fan. Sexto.

Ne dilectus filius»[60].

 

Numerosi sono, cmunque, gli atti giuntici nei quali interviene a vario titolo il vescovo Andrea. In un documento datato 7 giugno 1223, si fa cenno ad una sentenza promulgata dal vescovo di San Marco a favore del priore del monastero di S.Gregorio di Spazano:

«Abbati et conventui monasterii Monti Cassinensis, Confirmat sententiam, quam Episcopus Sancti Marci, auctoritate apostolica, promulgavit favore Prioris monasterii S.Gregorii de Spazano contra abatem de Scusa, qui dictum Priorem de supradicta ecclesia contra iustitiam spoliaverat. Dat. Signie, septimo idus Iunii, Pont. Anno septimo.

Ea que iudicio»[61].

 

Il documento, registra la conferma della sentenza emessa dal vescovo Andrea.  Altrove, al vescovo Andrea spetta richiamare all’obbedienza l’Archimandrita del monastero del Santissimo Salvatore di Messina di tradizione italo-greca, pena l’allontanamento dal monastero e la perdita del beneficio ad esso connesso, in data 5 settembre dello stesso anno:

«Andreae, episcopo Sancti Marci, et Thesaurario Cusentino. Quum inter Archimandritam monasterii S. Salvatoris de Lingua Messanen, eiusque monasterium ex una parte, et Ecclesiam Messanen, ex altera, diu et super diversis articoli causa verteretur, et pars monasterii, dicto procurante Archimadrita, contra providentiam super hoc ab Apostolica Sede fgactam, ad saeculare subsidium recurrisset; mandat ut indicant Archimadritam et conventum praedictos ad observantiam sententiae excommunicationis et suspernsionis, quas in eos protulerant Reginus Archiepiscopus et coniudices sui a Papa delegati ac deinde Archiepiscopus Cusentinus et eius collegae ac demum Tropeensis Episcopus, observari mandarunt; quod, nisi obtemperaverint, Archimandritam ipsum, tanquam huius praesumptionis autore, officio beneficioque privent et a regimine monasterii sui amoveant. Dat. Signie, nonis septembris, Pont. An. Octavo.

Archimandrita S.Salvatoris»[62].

Si trattava dela conferma della sentenza di scomunica comminata dall'Arcivescovo di Reggio all'Archimandrita del SSSalvatore di Messina per non aver accettato il giudizio emanato in una sua lite con l'arcivescovo di Messina. Interessante che il richiamo fosse venuto a nome del vescovo di San Marco in una questione che sappiamo essersi trascinata a lungo, se in una lettera del 28 maggio 1225, papa Onorio III ricorda la conferma della scomunica[63].

In un altro documento datato 5 aprile del 1240 osserviamo il vescovo Andrea intervenire sull’elezione dell’abate del monastero di S.Maria di Camigliano:

«Episcopo Sancti Marci committit examinationem electionis celebratae a Priore et conventu monasterii S.Mariae de Camiliano. O.S.B., Rossanen, dioc., de C., Priore monasterii eiusdem Ordinis, Cusentin, dioc., in Abbatem monasterii S.Mariae de Camiliano; ei mandat quatenus, si idem monasterium, ad Romanam Ecclesiam nullo mdio pertineat et si electionem illam ipse invenerit de persona idonea canonice celebratam, illam confirmet et faciat electo benedictionem impendi; abeodem electo fidelitatis iuramentum et formam iuramenti ab ipso praestiti de verbo ad verbum, per eiusdem electi patentes litteras, eiusdem sigillo signatas, ad Sedem Apostolicam destinet; alioquin, eadem electione cassata, faciat eidem monasterio S.Mariae de persona idonea provideri. Dat. Laterani, nonis aprilis, Pont. An. Quarto decimo.

Prior et conventus monasterii S.Mariae de Camiliano»[64].

 

Nel 1256 si succederanno in brevissimo tempo due vescovi alla guida della diocesi di San Marco. Trasferito dalla diocesi di Policastro, Marco fu il sesto vescovo cui fece

Però, quasi subito, seguito Fabiano, anch’egli ivi trasferito dalla diocesi di Policatro, come testimonia un documento datato 10 luglio dello stesso anno:

«Stephanus, miseratione divina, episcopus Praenestinus, ex concessione summi Pontificis, transfert Fabianum, episcopo Policastren, ad ecclesaiam Sancti Marci. Dat. Anagnie, die lune X intrante iulio, anno Domini MCCLVI, pontif. D.ni Alexandri ppe IIII, anno secundo»[65].

 

Fabiano reggerà le sorti della diocesi per sedici anni, ma non abbiamo documenti che ci testimonino la sua attività. Solo due documenti registrano la ocnferma dell’avvenuto trasferimento. Il primo, datato 18 luglio:

«Fabianum. Olim Policastren. Episcopum, a Stephano episcopo Praenestino, per annulum investitum de episcopato Sancti Marci in Valle Grati, confirma; litteras Stephani, datas Anagnie die lune X intrante iulio anno MCCLVI, inserendo. Dat. anagnie, XV kal. Augusti, pon. Anno secundo.

Rationis ordo intuentes»[66].

 

Il secondo documento, recante la medesima data, reca la conferma da parte del Capitolo ecclesiastico:

«Capitulo ecclesiae Sancti Marci in Vallegratis, Translationem Fabiani ad ecclesiam Sancti Marci confirmat et mandat ut ei oboedientiam et reverentiam debitam exhibeat. Dat. Anagnie, XV Kal. Augusti, Anno secundo.

Rationis oculis intrantes»[67].

 

Nel 1272 Mirabello è il nuovo vescovo di San Marco. Già canonico della cattedrale di San Marco, venne elevato al seggio vescovile da papa Gregorio X. Il primo documento riguardante la verifica di accuse sollevate sull’elezione ad arcivescovo di S.Severina del canonico Ruggero di Stefanizia:

«(Mirabello) S.Martci et (Marco de Assisio) Cassanensi episcopis ac Ministro Fratrum Minorum in Calabria mandat, ut super iis, quae contra Rogerium canonicum, in Archiepiscopum S.Severinae electum, sibi insinuata sunt qua eque, si vera essent, confirmationem electionis impedirent, diligenter inquirant veritatem et, si eorum aliquod, per quod electio debeat irritari, invenerint esse verum, electionem ipsam cassent, alioquin, electionem confirmantes, electo faciant munus consecrationis impedendi. Dat. apud Urbem Veterem, kal. Iunii, anno primo.

Ecclesia Sancte Severine in Calabria»[68].

 

Le accuse dovettero risultare infondate, poiché Ruggero venne confermato nel suo ufficio. Partecipò alla guerra del Vespro iniziata il 31 marzo del 1282, che rese la Calabria teatro di scontro tra Angioini e Aragonesi, difendendo con le armi Santa Severina dagli attacchi dei siculo-aragonesi[69]. Il suo aperto schieramento a favoe degli angioini lo portò temporaneamente all’esilio, e con lui anche il fratello Lucifero vescovo di Umbriatico. Al termine degli scontri nella vallata del Neto vennero entrambi reintegrati nel loro ufficio da papa Niccolò IV, per mano del suo Legato nel Regno di Sicilia. Divenuto arcivescovo di Cosenza nel 1295, ricevette pure vari incarichi in Lombardia, per volere di Carlo D’Angiò[70].

Intanto, nel 1275 Pietro, frate dell’Ordine dei Minori, diviene vescovo di San Marco. La sua elezione è un importante indizio per comprendere come fosse attiva la presenza in seno alla Chiesa dei nuovi  ordini religiosi mendicanti. Non abbiamo, tuttavia, tracce della sua azione come vescovo nei documenti osservati. A lui succede sul seggio vescovile Francesco nel 1277 e, poi, Marco, nel 1281.

Già canonico della Cattedrale di San Marco, subì anch’egli un esame da parte del vescovo di Nicastro e del Guardiano dell’Ordine dei Minori di Cosenza, come testimoniano due lettere di papa Martino IV. Un documento datato 9 dicembre 1281 ce lo conferma:

«Episcopo Neocastrensi et Custodi Fratrum Minorum de cusentia mandat quatenus de electione Marci, canonici, post mortem Francisci episcopi S.Marci factam, de qua esaminanda iam Nicolao quondam Papa R., episcopus Albanen, et A., tit. S.Praxedis, presbiteri cardinales deputati fuerant, iuxta eorundem Cardinalium interrogatoria sibi trans missa diligenter inquirant. Dat. apud Urbem Veterem, V idus decembriis, anno primo.

Dudum ecclesia Sancti Marci»[71].

 

In un altro documento datato 22 gennaio 1283, si fa cenno ad una prima elezione di tale Trasmundo de Gullivisio, cui seguì quella di Marco da parte del Capitolo: anche in questo caso si fa esplicito riferimento all’indagine richiesta dal papa ed al suo buon esito, previo ulteriore conferma di persona inviata appositamente dal vescovo sabinense per un ulteriore esame:

«Episcopum Sabinensi, Ap. S.Legato. Ecclesia S.Marci, per ob. F(rancisci episcopi), pastoris solatio destituta, cum, Trasmundo de gullivisio in episcopum SMarci per viam scritinii primum assumpto, sed facto huiusmodi minime consentiente, Capitulum deinde Marcum, canonicum dictae ecclesiae, in episcopum elegerit; Nicolaus vero Papa per episcopum Albenensem et a S., tit. S.Praxedis, presbitero et I Sanctae Mariae in Cosmedin, diacono Cardinalibus, praesentatam sibi electionem huiusmodi examinari fecerit, ac Martinus IV postmodum Papa episcopo Neocastrensi et Custodi Ordinis Fratrum Minorum de Cusentia, ut super certis articoli veritatem inquirent mandaverit, licet electio inventa sit ab eis canonice celebrata, episcopo Sabinensi mandat quatenus personam electi esamine et si eam confirmet invenerit idoneam, dicta electionem apostolica auctoritate confirmet, electum in sacerdotem promoveat et ei munus consecrationis impertiri faciat. Dat. apud Urbem veterem, XI kal. Februarii, Pont. an. Secundo.

Dudum ecclesia Sancti Marci»[72].

 

Dall’esame non risultò alcun impedimento all’elezione del vescovo Marco, poi trasferito da papa Onorio IV al seggio arcivescovile di Sorrento, nel 1286.

Ancora Gerardo, vescovo sabinense sarà protagonista dell’esame cui fu sottoposta l’elezione del successore di Marco, Manfredo nel 1286. Un documento, datato 28 gennaio 1287, reca la sua conferma:

«Gerardo, episcopo Sabinensi, Ap. S. Legato, mandat quatinus electionem de Manfredo, canonico cusentino, in S.Marci episcopo, celebratam, inquisita de eiusdem electione veritate, confirmet. Dat. Rome, apun Sanctam Sabina, V kal. Februarii, anno secundo.

Petitio dilectorum filiorum»[73].

 

Il vescovato di Manfredo sarà travagliato dalle tristi vicissitudini seguite alla guerra del Vespro, cui prima si accennava: la sollevazione avvenuta a Palermo il 31 marzo 1282 aveva dato l’avvio alla ribellione contro i Francesi di Carlo d’Angiò in tutta l’isola, trasformanosi in guerra tra gli aragonesi di Pietro I d’Aragona accorsi in aiuto dei siciliani e l’esercio angioino. Gli aragonesi occuparono le regioni della penisola, poi chiamate Regno di Napoli e portarono la guerra sino in terra calabra. Inutile dre che la collocazione strategia di San Marco, posta com’è in capo all’istmo di Sibari e via di transito privilegiata tra la sicilia e le Puglie, venne sin da subito attaccata ed occupata dalle truppe aragonesi. Al vescovo Manfredo, dopo un primo tenttaivo di opposizone alle forze nemiche, non restò che l’esilio: la fedeltà al pontefice ed alla causa angioina gli valse il sostegno di papa Nicola IV che gli affidò l’ufficio di amministratore della Chiesa di Bisaccia, come ci conferma un documento datato 2 giugno 1291

«Committitur gubernatio ecclesiae Bisacien. Manfredo, episcopo S.Marci, proventi bus ecclesiae suae in Calabria per infedele privato. Dat. apud Urbemveterem, IIII nonas Iunii pont. anno quarto – Angit nos cura.

In e.m.: Capitulo ecclesiae Bisacien. Ut eidem Manfredo hanc administrationem exercendi oboediant»[74].

 

In questi anni di incertezza, ritroviamo dei documenti che indicano la diocesi di San Marco come suffragnea dell’arcidiocesi di Messina:

«Archiepiscopus Messanen. Hos habet sufraganeos, videl. Sancti Marci et Pacten., Militen…Et isti duo sunt exempti et in Calabria[75]»[76].

 

Manfredo poté tornare nella sua sede vescovile nel 1310 e ivi governarla sino alla sua morte, avvenuta nel 1321. Un documento datato 15 maggio 1310 ci testimonia l’avvenuta reintegrazione del vescovo cui si rivolge l’arcivescovo di Monreale:

«Petente archiepiscopo Montisregalen., mandat episcopo S.Marci quatenus archimandritam et conventum monasterii Carbonensis, O.S: Bas., anglonen. Dioc., compellat., ad solvenda quae ipsi archiepiscopo debentur et ad visitationes eiusdem excipiendas. Dat. Avenione, idus maii, anno domini MCCCX, Ind. VIII pont. n.ri anno quinto»[77].

 

Si noti che il documento è indicato come proveniente non da Roma, ma da Avignone, ove dal 1309 era stata trasferita  de facto la sede apostolica[78].

Lo stesso vescovo di San Marco sembra poi impegnato in una questione che si trascinava già dal 1308, relativa all’elezione al seggio vescovile di frate Venuto, per questo chiamato a rispondere alla Sede Apostolica. Il 29 giugno 1308, l’arcivescovo di Cosenza e l’arcidiacono di San Marco (assente il vescovo titolare) chiamavano frate Venuto a dar ragione presso la Sede Apostolica della sua elezione al seggio vescovile di Catanzaro:

«Archiepiscopo Cusentin. et S.Marci archidiacono nmandat ut citen fratrem Venutum de Neocastro, Ord. Min., electum Cathacen., ad Apostolicam Sedem, ratione de sua electione redditurum, quia ad dictam ecclesiam electus sit favore comitis Catanzarii et absque licentia sui Ministri»[79].

Il 30 maggio 1310, l’arcivescovo di Cosenza, quello di Mileto e, appunto, il vescovo di San Marco tornano ad occuparsi delle sorti di frate Venuto:

«Archiepiscopo Cusentin. et Milite net S.Marci episcopis. Citatur ad comparendum in Curia Romana frater Venutus, Ord. Min., qui eiusdem Ordinis Ministri generalis sigillo abutens, idque litteris a se fabricatis affigens, se in episcopum Catacen. Fecerat consecrari. Dat. Avenione, III kal. Iunii, anno quinto.

Dudum pro parte procuratoris generalis Ord. Min.»[80].

 

La diocesi di San Marco ricompare nella documentazione esaminata in un altro atto afferente al vescovato di Manfredo. Il documento, datato 28 dicembre 1312 dal quale si evice l’esenzione dalle decime della diocesi di San Marco:

«Die vicesima octava dicembri Indicationis undecime apud Neapolim d.nus abbas leo dedite t tradidit et assignavit eidem d.no Bernanrdo de pecunia duarum decimarum collecta in Rossana S.te severine et Cusentin. provinciis, mensa tarchie.lis Cusentin. dumtaxat excepta, nec non in civitatibus et diocesi bus S.ti Marci et Bisinianen., que sunt exempte, et Cassanen, que est Regine provincie, per collectores deputatos ibidem deposita penes capitulum Rossanen. in universo unc. Centum XIIII et tar. XIIII, sexaginta aragonens. pro qualibet uncia computata.

Item eadem die ibidem d.nus abbas de eadem pecunia in giliatis dedit tradidit et assignavit dicto d.no Bernardo unc. I, tar. XIIII.. Summa aragonens. unc. C. XIIII tar. XIIII – Summa giliat. Unc. I tar. XIIII»[81].

 

Con buona probabilità, l’esenzione doveva costituire una misura straordinaria che rendeva conto delle devastazioni subite durante la guerra e che doveva, perciò, agevolare la ripresa delle attività in quella come nelle altre diocesi. Si ricorda che la diocesi di San Marco era già stata considerata esentata nel documento precedentemente osservato, relativo al periodo in cui la città era occupata dalle truppe aragonesi[82] e la diocesi stessa era divenuta suffraganea dell’arcidiocesi messinese.

A Manfredo successe Tommaso, nel 1323. Già abate del monastero di S.Maria della Magtina e di Sambucina dalla metà del giugno 1315, salì al seggio vescovile quando già si era guadagnato il favore delle genti per la sua operosità e per le proprie virtù morali. Al periodo del governo abbaziale si devono la consacrazione degli altari delle chiese di S.Maria Madallena del Castello e di San Salvatore di Settima, ad esempio.

Un documento datato 26 agosto 1323[83] ci racconta però che questi salì al seggio vescovile solo in seconda battuta, dopo la rinuncia Riccardo di Policastro, dell’Ordine dei Frati Minori:

«Thomas, abbas monasterii S.Mariae deMatina, cisterc. Ord., s.Marci dioc., in peiscopum S.Martci, per ob. Manfredi episcopi et renuntiationem ricardi de Policastro, Ord. Fr. Min., a capitulo electo, confirmatur. Dat. Avinione VII, kal. Septembris, anno septimo»[84].

 

La sede vacante di abate venne affidata solo alcuni mesi dopo, stando ad un documento datao 19 dicembre dello stesso anno, ad Antonio, monaco dle mo monastero cistercense di Casenove:

«Thomae, episcopo S.Marci. Antonio, monachus monasterii Casenovae, cisterc. Ord., Pennen. Dioc., fit abbas monasterii S.Mariae de Martina (sic), dicti Ordinis, S.Marci idoc., vac. per consecrationem Thomae in episcopum S.Marci. Dat. Avinione, XIIII kal. Ianuarii, anno octavo»[85].

 

Un altra breve annotazione che riagurda Tommaso, ci testimonia la fine dell’esenzione di S.Marco dal versamento delle decime. Il documento è datato 12 febbraio 1324:

«In dyocesi S.ti Marci. Die februarii VII indict. Apud S.tum Marcum a d.no episcopo unc. I tar. XXIIII»[86].

 

Non ci è, tuttavia, dato di conoscere la data effettiva della cessazione dell’esenzione.

Nel 1346, alla presenza dell’arcivescovo di Cosenza, Francesco e degli altri vescovi delle diocesi limitrofe, Tommaso concesse l’indulgenza ai fedeli che avessero provveduto alle riparazioni delle chiese di S.Nicola di Policastrello ed alla stessa chiesa di San Marco. Già in un documento datato 7 febbraio 1329, si faceva cenno alla concessione di indulgenza pro tempore ai fedeli che avessero devotamente visitato ed avessero lasciato una offerta per la fabbrica della Chiesa di Policastrello:

«Omnibus Christifidelium devote visitanti bus et manus porrigentibus ad fabricam ecclesiae S.Salvatoris de policastrello, Sancti Marci dioc., conceditur indulgentia centum dierum, in ipsius dedicationis festivi tate. Dat. Avinione, VII Id. frebruarii, anno tertiodecimo»[87].

 

Il ricorso ad una simile concessione, a distanza di diciassette anni dalla prima, testimonia, con buona probabilità, il felice esito della precedente iniziativa.

Si ricorda, inoltre, che una simile concessione venne accordata in occasione della festa della Beata Vergine, per i fedeli che avessero reso devota visita alla Chiesa della Beata Maria Nova di Belvedere, ocme testimonia un documento datato 18 marzo 1329:

«Indulgentia sexaginta dierum in singulis festivitatibus B.Mariae Virginis et quadraginta dierum pro octava dictarum festivitatum visitanti bus ecclesiam B.Mariae Nova de Bellovidere, Sancti Marci dioc. a N. V. Rogerio, Comite Coriliani, constructam. Dat. avinione, XV kal. Opulis anno tertiodecimo»[88].

 

I documenti esaminati non permettono di osservare più da vicino l’attività di questo operoso vescovo, se non attraverso brevi cenni. In una nota datata 13 aprile 1332, lo vediamo accogliere il guramento di fedeltà del vescovo di bisignano. Federico:

«Nolan. et S.Marci episcopis mandat ut a Frederico, episcopo Bisinianen., recipiant fidelitatis iuramentum, iuxta foram inclusam et ad Apostolicam sedem mittena proprii signatam sigillis. Dat. Avinione, Id. aprilis anno sextodecimo»[89].

 

Nel 1348 Tommaso muore e sarà eletto vescovo della diocesi Bertuccio da Cassano, dell’Ordine dei frati Minori. Un documento datato 3 ottobre di quell’anno ne conferma l’elezione indicando, tuttavia, un diverso luogo di provenienza (Cetraro).

«Bertuccius de Citrario, presbite, Ord. Fr. Min., fit episcopus Sancti Marci per ob. Thomasii extra R.C. defuncti. Dat. Avinione V nonas octobris anno septimo.

In eminenti sedis apostolice Santi Marci; Clero civitatis et dioc.; Populo civitatis et dioc.; Johannae, reginae Siciliae: “divine retributionis”»[90].

 

Probabilmente trattasi di errore dello scrivente dell’atto, poiché spesso tanto i toponimi quanto i nomi subiscono variazioni nei documenti, vuoi per errore di trascrizione, vuoi per ignoranza degli stessi.

Il suo vescovato durerà però solo pochi mesi, poiché in un documento datato 18 maggio 1349 leggiamo dell’elezione al seggio vescovile di Giovanni, già canonico della Chiesa di Cassano:

«Johannes, canonico Cassanen., in diaconatus ordine constitutus, fit episcopus Sancti Marci, per ob. Bertucci. Dat. Avinione XV kal. Junii anno septimo.

In cetera que divina  disposizione. In e.m.: Capitulo ecclesiae Sancti Marci; Clero civitatis et dioc.; Populo civitatis et dioc.»[91].

 

Confermato da papa Clemente VI, è l’indirizzario di questo singolare documento in cui «conceditur quod possit»:

«Johanni, electo Sancti Marci, conceditur quod possit a quocumque maluerit catholico antistite munus consecrationis suscipere. Dat. Avinione kl. Junii anno Ocatabo»[92].

 

Si tratta di una formula per lo meno bizzarra, registrata come documento ufficiale datato 1 giugno 1349: non si indicano né facoltà, né beni o mense specifiche, ma si fa solamente cenno alla “buona volontà” di colui che accetta di assumere l’incarico vescovile.

Al di là di registrazioni di spettanze e concessione o conferma di incarichi funzionali, il primo documento in cui si registra l’intervento del vescovo Giovanni, unitamente agli altri vscovi ed agli arcivescovi di Rossano e Santa Severina, è datato 24 agosto 1355. Si tratta di una richiesta di copertura delle spese relative all’attività inquisitoriale indirizzata all’inquisitore Francesco da Messina, dell’Ordine dei Predicatori, per un periodo biennale:

«Rossanen. et Sanctae Severinae Archiepiscopis, Militen, Bisinianen, et Sancti Marci Episcopis, mandat quatenus Francisco de Messana, Ord. Praed., haereticae pravitatis in regno Siciliae citra Frarum Inquisitori, ab Ap. Sede specialiter deputato, tam ipsi quam alii Archiepiscopi et Episcopi in parti bus Calabriae consistentes, provideant et provideri faciant ab omnibus personis ecclesiasticis regularibus et saecularibus exemptibus earundem partium quaedam stipendia ad biennium sufficientia collective ad expensas pro persona eiusdem Inquisitori set Socii, Notarii et trium equorum supplendas, ne prosecutio negotiorum, quae eidem Francisco in illis partibus fuerat commissa, propter expensarum defectum aliqualiter retardetur. Dat. apud Villanovam, Avinionem. Dioc., VIIII kal. Septembris, Anno Tertio.

Quantum negotium catholice fidei»[93].

 

Il documento si inserisce in un quadro ben più ampio[94]. Se agli inizi del Trecento, gli insediamenti minoritici in Calabria constavano di diciotto unità, verso gli inizi del Cinquecento, saliranno a trentacinque, raggiungendo anche sedi vescovili come Catanzaro, Cariati e Rossano, mano a mano che si sviluppava l’Osservanza. Di fatto, lo sviluppo di numerosi movimenti di riforma, sorti intorno alla seconda metà del Trecento, che si riconducevano in vario modo al francescanesimo andarono ad alimentare preesistenti focolai di forte tensione che produrranno esperienze riformatrici difformi[95]. In tale quadro si situa lo sviluppo dell’Osservanza francescana, all’insegna del travaglio che divise gli Osservanti dagli Spirituali. E se i primi, almeno inizialmente, non si posero in contestazione con la comunità francescana, né manifestarono tendenze autonomistiche, i secondi maturarono esperienze spesso in contrasto con il corpo ecclesale. Tutto ciò permise agli Osservanti di farsi strumento del papato per riportare la dissidenza francescana all’ordine, configurandosi come occasione di «superamento e sintesi di due momenti antitetici, il conventualismo e il fraticellismo»[96].

Forte era la presenza degli Spirituali in Calabria, soprattutto grazie all’apporto di Minori siciliani, qui dove ancora erano vivi gli echi dell’esperienza del mistico Gioacchino da Fiore. Già in una lettera del 7 marzo 1327, Giovanni XXII concedeva al al ministro provinciale Nicola da Reggio la facoltà di arrestare ricorrendo, se necessario, anche all’«auxilium brachii saecularis» i «Fraticelli de paupere vita», i quali «de Sicilia insula in provincia Calabriae iam obrepunt non sine horrendo et timendo contagio Christifidelium dictae provinciae inibi habitantium»[97].

Con la salita al soglio di Pietro di Innocenzo VI (1352-1362), venne dato inzio ad un capillare azione di repressione degli Spirituali il cui primo atto fu proprio la nomina di Francesco da Messina ad inquisitore, nel 1355[98]. Il papa chiese sostegno per la sua attività a principi, duchi, comunità cittadine e scrisse pure agli ordinari diocesani, come ci testimonia il documento sopra osservato affinché tutti collaborassero con l’inquisitore e si estirpasse la «nefanda haereticorum multitudo quae in partibus Calabriae de diversis nationibus et mundi partibus dicitur congregata»[99].

Il medesimo intento informa il provvedimento di Urbano V che assegnava nel 1363 ai Minori tre conventi situtai tra Cosenza e Melito, precedentemente occupati dai Fraticelli[100], aggiungendo che nella zona «nullus locus seu conventus fratrum mendicantium existit» e che «inibi per Fraticello set Grecos aliquos contra fidem catholicam sunt errores varii seminati»[101].

Dai documenti qui esaminati, la morte Giovanni risalirebbe al al 1374 e non al 1380[102], data di elezione del vescovo Filippo, sul quale si avrà modo di tornare in seguito. Infatti, in un documento datato 25 maggio 1374 si nomina come usufruttuario delle prebende di San Marco e di altre chiese Nicola, vescovo di Umbriatico:

«Collatio canonicatus ecclesiae Cusentin. et praebendae Sancti Marci in eadem ecclesia, cum perpetuo benefio ecclesiastico “venerelli” vulgariter nuncupato, Cusentin. dioc., eidem praebendae annexo, per Nicolai, episcopi Umbriaticen. Consecrationem, vac. Nicolao Pappo, canonico ecclesiae Rhegin. Dat. Gallon, Arelaten. Dioc., VIII kl junii, Pont. n.ri Anno quarto.

Laudabilia probitatis et virtutum»[103].

 

E in un documento datato 30 ottobre si stabilisce il trasferimento di Nicola al seggio vescovile di San Marco, per la morte del vescovo Giovanni:

«Nicolaus, peiscopo Umbriaticen., transfertur ad ecclesiam Sancti Marci, vac. per ob. Johannis, extra R.C: defuncti. Dat. Avinione III kl novembris, anno Quarto. –  Credite nobis.

In e.m.: Capitulo ecclesiae S.Marci; Populo civitatis et dioc.; Clero civitatis et dioc.»[104].

 

Il trasferimento deve pure essere avvenuto di lì a poco, se in un altro documento, datato 13 novembre 1374 si indica il nome del successore all’episcopato di Umbriatico, a causa della vacanza dell’uffiico in seguito al trasferimento di Nicola alla guida della diocesi San Marco:

«Eccleasiae Umbriaticen., vac. per translationem Nicolai ad episcopatum Sancti Marci, providetur de Jacopo de Potentia, Or. Fr. Min. professore, in presbyteratus ordine costituto. Dat. Avinione Id. novembris Anno Quarto – apostolatus officio.

In e.m.: Capitulo et Vassallis ecclesiae Umbriaticen; Clero et populo civitatis et dioc.; Archiepiscopo Sanctae Severinae: “Ad cumulum”; Johannae, reginae Siciliae: “Gratie divine”»[105].

 

L’antipapa Clemente VII prepose alla diocesi di San Marco, nel 1379 Pietro Roncella, come testimonia questo documento datato 24 ottobre 1379:

«Petrus Roncella, canonicus Aquinaten, fit Episcopus Sancti Marci, per ob. Nicolai extra R.C. defuncti. Dat. Avinione, VIIII kal novembris, anno primo. – Inter cetera que superna dispositione.

In e.m.: Capitulo ecclesiae S.Marci; Clero civitatis et dioc.; Populo civitatis et dioc.; Universis vassallis»[106].

 

Alla medesima data si registra anche l’avallo della regina di sicilia Giovanna alla sua nomina:

«Hortatoria Johannae, reginae Siciliae, quatenus eundem PEtrum, electum Sancti Marci, una cum ecclesia praedicta, pro divina ed Apostolicae Sedis reverentia commendatos habeat. Dat. Avinione, VIIII kal. Novembris, Anno primo – Gratie divine»[107].

 

Null’altro sappiamo di questo vescovo, il cui nome è emerso dalle carte esaminate e peraltro ignorato dai commentatori. L’anno successivo, Clemente VII nominò al medeismo ufficio, infatti, frate Filippo de Ligonio precettore beneventano gerosolimitano[108]. Quest’ultimo ricoprì l’incarico anche successivamente alla morte del primo artefice dello scisma d’Occidente[109].

Non sono stati riscontrati documenti di particolare interesse durante il suo vescovato. Si ricordano, tuttavia, un documento datato 14 ottobre 1391, nel quale il vescovo richiede che sia assegnato beneficio ecclesiastico ad un chierico napoletano,:

«Episcopo Sancti Marci mandat ut provideat de beneficio ecclesiastico Vigano Cimino, clerico Neapolitan. Dat. Rome apud Sanctumpetrum, secundu Idus Octobris, Pont. anno secundo.

Dignum arbitramur et congruum»[110];

 

ed un altro documento, datato 1 febbraio 1399, nel quale il vescovo Ligonio ricevette l’incarico di Collettore nel Regno di Napoli ed in quello di Sicilia:

«Archiepiscopus Consan. Et episcopus Sancti Marci deputantur collectores in Regno Neapolis et terris Regni Siciliae citra Farum. Dat. in rome, apud Sanctumpetrum, kl. Februarii anno decimo.

Cum nos attentis»[111].

 

Il Collettore apostolico aveva l’incarico di raccogliere le decime nell’area di competenza, spesso associato ad incarichi diplomatici temporanei. Di certo, il nostro vescovo non ebbe molto tempo per esercitare questo ufficio, poiché morì quello stesso 1399.

Gli succedette Domenico di Sora (o Sorano), la cui nomina venne confermata dalla Curia con un documento datato 3 agosto 1399:

«Dominicus de Sora, Ord. Min., fit episcopus sancti Marci per ob. Philippi de Ligonio. Dat Rome apud Sanctumpetrum, tertio nonas augusti, anno decimo»[112].

 

La sua nomina avvenne per volontà di Bonifacio IX, eletto a Roma come successore di Urbano VI, ancora vivente l’antipapa Clemente VII, tuttavia ebbe modo di esercitare il proprio ufficio solo un anno, poiché morì nel 1400.

Si noti che il Conti segnala l’elezione di un altro vescovo antecedentemente a Domenico, ovvero Tommaso de Maris, il quale non avrebbe però mai raggiunto la sede vescovile[113]. Nessuno dei documenti visionati sembra confermare la notizia.

Il successivo vescovo, Manerio, era un monaco benedettino proveniente dal Monastero di San Sebastiano, a Napoli. Un documento, datato 13 luglio 1400, reca la conferma della sua elezione:

«Manerius Abbas monasterii S.Sebastiani Neapolitan. Fit episcopus Sancti Marci per ob. Dominici. Dat. Rome, apud sanctumpetrum, Tertio Idus Julii Pont. anno Undecimo – Apostolatus officium.

In e.m.: Capitulo ecclesiae Sancti Marci; Clero civitatis et dioc.; Populo civitatis et dioc.; Ladislao, regi Jerusalem et Siciliae: “Gratie divine”»[114].

 

Egli mantenne il suo ufficio sino al 1404, anno nel quale morì e gli succedette sul seggio vescovile Lodovico Imbriaco, anch’egli monaco benedettino, proveniente dal Monastero di santa Maria della Cappella fuori le mura di Napoli ed il cui vescovato si protrasse per ben ventinove anni.

Questo il documento di conferma della nomina, datato 17 marzo 1404:

«Ludovicus Imbriacus, monachus monasterii S.Mariae ad cappellam Neapolitan, O.S.B., fit episcopus Sancti Marci per ob. Mainerii. Dat. Rome apud Sanctumpetrum, Sextodecimo kal Aprilis, Anno Quintodecimo – Apostolatus officium.

S.m.: Capituli ecclesiae S.Marci; Clero civitatis et dioc.; Populo civitatis et dioc.»[115].

 

Con un altro documento, recante la medesima data, si dà facoltà al vescovo Imbriaco, di trasferirsi dalla canonica di S.Antonio a Napoli al monastero di Santa Maria della Cappella. Nonn si conosce altro sulla ragione di una tale provvisione, tanto più che in questo stesso documento si fa preciso riferimento all’affidamento della diocesi di San Marco al reverendo monaco:

«Ludovico Imbriaco, cui hodie providit de ecclesia S.Marci, datur facultas transeunti a Canonicis domus S.antonii Neapolitan., O.S.A., ad monasterium S:Mariae de Capellis, O.S.B. Dat. Rome apud Sanctumpetrum, sestodecimo kl aprilis, anno Quintodecimo.

Religionis zelus»[116].

 

Sotto questo vescovo, papa Gregorio XII stabilì che l’abbazia di Santa Maria della Matina venisse affidata in commenda e i numerosi provvedimenti che riguardano il passaggio, l’amministrazione e l’identificazione dei vicari amministratori furono firamti e promulgati dall’ Imbriaco[117].

Numerosi furono, comuque, i provvediemnti che videro protagonista il nostro vescovo, tutti riguardanti l’amministrazione della diocesi, come quello datato 17 ottobre 1426, nel quale si autorizza Nicolao Ortese di Belvedere a riedificare la chiesa di San Nicola, all’epoca del tutto in rovina, per affidarla poi ai frati dell’Ordine dei Minori che seguono la regola dell’Osservanza:

«Episcopo Sancti Marci. Cum nucolaus Ortese de Bellovidere, laicus S.Marci dioc., intendat de bonis suis ecclesiam S.Nicolai de territorio Bellovidere, totaliter destructam, raeedificare e team tradere fratribus Ord.Min. de Observantia, mandat ut, si ita res se habent, dictam ecclesiam eisdem Fratribus tradat. Dat. Rome, apud Sanctosapostolos, sestodecimo kl novembris, Anno nono. – Iustis et honestis votis»[118].

 

Si noti la specificazione del frati: come altrove notato, siamo testimoni di un altro momento di affermazione degli Osservanti sugli Spirituali in territorio calabro.

Il 26 ottobre 1435 sale al seggio vescovile di San Marco, Antonio Cale:

«Antonius Colae (de Genovisio) fit Episcopus Sancti Marci per ob. Aloisii­. Dat. Florentie, anno Inc.nis d.mnce MCCCCXXXV, VII kl novembris, anno quinto.

Apostolatus officium»[119].

 

Il documento ci parla però della morte del vescovo Aloisio, non altrimenti noto: esclusi errori di trascrizione, poiché troopo diversi sono i nomi dei due vescovi (Ludovico e Aloisio, appunto), non ci resta che ipotizzare un affido o una traslazione non altrimenti registrata che portò l’Aloisio in terra di San Marco, sicuramente dopo il senza che però ne restasse traccia duratura.

La nomina del vescovo Antonio è pure avallata da una relazione del cardinal Veneziano (Pietro di Venezia, già commendatario, tra le altre, dell’abbazia di Santa Maria della Matina?), recante la medesima data:

«Die mercurii, VII kal novembris, ad relationem Card. Venentianum, Antonius Colae, Canonico Rossanen., fit episcopus Sancti Marci in Calabria, per ob. Aloisii, extra R.C. Fuit promotus florentie, septimo kal novembris, anno quinto»[120].

 

Da questo altro atto, apprendiamo che il vescovo Cola era stato precedentemente canonico di Rossano. Tra gli atti di maggiore interesse che lo riguardano si segnalano l’unione dell’abbazia di Santa Maria della Matina con quella certosina di San Nicola di Chiaromonte[121].

Si segnala, inoltre, il passaggio ai frati del Terzo Ordine di Penitenza di San Francesco del convento di San Nicola di Palombara, come risultante da una registrazione datata 13 novembre 1441:

«Episcopo Sancti Marci significat quod, ad petitionem Nicolai arthesii, fratris Tertii Ordinis de Poenitentia S.Francisci, conventum S.Nicolai de Palumbaria, in pertinentia castriBelvederii, S.Marci dioc., Fratribus dicti ordinis confirmat. Dat. Florentie, Anno Inc.nis d.mnce MCCCCXLI, anno undecimo.

Solet apostolice sedis copiosa benignitatis »[122].

 

Dai documenti esaminati risulta che il suo vescovato perdurò per due decenni e non oltre[123]. Il trasferimento del vescovo alla sede di Martirano avvenne, infatti, nel 1446, come testimonia questo documento datato 11 febbraio:

«Antonius, episcopus S.Marci, transfertur ad ecclesiam Marturanen., per traslationem Goffridi ad S.Marci. Dat. Rome, apud Sanctum petrum, Anno Inc.nis d.mnce MCCCXLVI, Tertius Idus Februarii, anno quinto decimo – Romani pontificis.

S.m.: Capitulo ecclesiae Marturanen.; clero civitatis et dioc.; Populo civitatis et dioc.; Archiepiscopo Cusentino: “Ad cumuluim”; Alfonso, Regi Aragonum et Siciliae: “Gratie divine”»[124].

 

Trattasi di duplice trasferimento, ovvero, mentre Antonio Cale andava a ricoprire il seggio vescovile di Martirano il precedente affidatario,  Goffredo[125] di Castro veniva a ricoprire l’ufficio in San Marco. L’insediamento di quest’ultimo deve, dunque, essere avenuto molto prima di quel 1471 indicato da vari storici.

A conferma di ciò troviamo un’altra registrazione datata 23 genno 1462 in cui si fa riferimento alla visita ad limina apostolorum del vescovo:

«Goffredus, episcopus Sancti Marci, absolvitur a praecepto et sibi datur littera testimonialis visitationis liminum pro anno quarto. Dat. rome, apud Sanctum petrum, anno etc. Millesimo CCCCLXII, decimo kal. Februarii, Pont. anno quarto.

Personam tuam»[126].

 

Ritroviamo il nostro vescovo impegnato nella lotta contro una ribellione della città, come ci testimonia un documento del 9 marzo 1462:

«Goffredi, episopo Sancti Marci, qui, licentiatus a sua sede quanto Comes Sancti Marci rebellatur et N.V. duci Iohanni adhaeserat, postea, recuperata civitate, populo sacramentorum administrationem impertiit vel impertiri fecit, indulget quod possit confessarium eligere, qui ipsum a sententia excommunicationis et interdicti aliisque censuris absolvat. Dat. Rome, apud Sanctumpetrum, Anno etc. MCCCCLXI, septimo Idus Marcii, Pont. anno quarto.

Ex ap.ce servitutis officio»[127].

 

Giovanni d’Angiò duca di Calabria, era figlio di Renato I e già pretendente al trono di Sicilia e come tale capeggiò la fazione angioina contro Ferdinando I d’Aragona nel Regno di Napoli. La lotta si estrinsecò in una serie di scontri che interessarono anche la Calabria[128], dove molti degli avversari dell’aragonese si erano uniti e apertamente ribellati a Ferrante quando Giovanni era riuscito a sbarcare sulla penisola  con una notevole flotta genovese, durante l’estate del 1459.

Giovanni aveva inaspettatamente guadagnato la vittoria di Sarno 7 luglio 1460, ottenuta dalle truppe di Iacopo Piccino, ma la successiva sconfitta di Troia del 18 agosto 1462, lo costrinse al rientro in Francia, cui seguì un ultimo tentativo culminato con la sconfitta nella battaglia navale d’Ischia nel 1465.

La ribellione sembra essere stata capeggiata da Luca di Sanseverino: è difficile ipotizzare le ragioni di un tale atto e come esso si inquadrasse nella lotta tra fautori angioini e fautori aragonesi, tanto più se si considera che tanto papa Pio II che la famiglia Sanseverino erano alleati di Ferrante I contro le pretese del d’Angiò, pure nominato nel documento. Considerando ciò, la ribellione di san Marco può, più probabilmente, inquadrarsi in un contesto di tensioni locali del tutto estraneo ai più ampi moti che scossero la regione in quegli anni.

Di certo, un documento dello stesso anno, ma di datazione incerta, reca l’assoluzione per Luca, probabilmente inquadrabile nel più ampio contesto degli atti di perdono citati nel primo documento:

«Pro Luca de Sanctoseverino, comite Sancti Marci, absolutio»[129].

 

Un documento datato 14 agosto 1467 ci illumina sull’attività pastorale di Goffredo, laddove trattasi di dispensa ab impedimento:

«Episcopo sancti Marci. Pro Loisio de Aversa, laico habitatore, et Manueala Fusca, cive Sancti Marci, dispensatio ab impedimento cognationis spiritualis, ex eo quod Pater Manuelae ipsum Loisium e fonte levaverat, ut inter se matrimonium licite et valide contrahere possint. Dat. Rome, apud sanctum marcum, anno Inc.nis d.mnce MCCCCLXVVII, Decimonono kal. Septembris, anno tertio.

Oblate nobis nuper»[130].

 

Si nota, a margine di quanto detto, che il documento deve essere stato però redatto con qualche ritardo, se una registrazione datata 3 aprile 1469 testimonia il versamento di un onere di cancelleria per esso:

«Die III, da luisi de Aversa et manuela sua donna snctimarci dioc., fl. Sei pro dispensa de certa cognazione spirituale et de sacrofonte»[131].

 

Il 19 giugno 1473 Goffredo, vescovo di San Marco conferma la concessione di facoltà e privilegi all’oratorio ed alla Chiesa di San Francesco (Assisiate) di Paola a Francesco di Paola, fondatore della Congregazione degli Eremiti[132]:

«(Gaufrido), Episcopo Sancti Marci. Precibus Fr. Francisci de Paula, Fundatoris Congregationis Heremitarum, annuit confirmans oratorium seu ecclesiam S.Francisci (Assisienssis) de Paula, cusentin. Dioc., necnon facultates et privilegia congregationis Heremitarum B.Petri de Pisis. Dat. Rome, apud Sanctumpetrum, Anno Inc.nis d.mnce MCCCCLXXIII, Tertiodecimo Kal. Iulii, anno secundo»[133].

 

Il pontefice Sisto IV aveva incaricato il vescovo di San Marco, di istruire un processo per esaminare la validità della Decet nos concessa agli eremiti dall’arcivescovo di Cosenza il 30 novembre 1471[134] e la legittimità della concessione dell’eremo di Paola a Francesco. Con quel documento, l’arcivescovo cosentino riconosceva al gruppo di eremiti che seguivano un genere di vita fondato sulla penitenza e sullo stretto rispetto della povertà, l’esenzione da ogni giurisdizione, eccettuata quella della Santa Sede, istituendo Francesco come superiore degli eremiti raccolti intorno a lui, conferendo loro la facoltà di amministrare e ricevere i sacramenti, oltre a quella di darsi uno statuto proprio. Di fatto, l’approvazione episcopale consentì la nascita di nuovi eremitori, oltre a quello di Paola, a origliano Calabro, Crotone, Paternò Calabro e Spezzano in Calabria e un convento a Milazzo, in Sicilia, nel 1465[135].

Ad inchiesta ultimata, in caso positivo, il vescovo di San Marco sarebbe stato autorizzato ad auctoritate apostolica a riconoscere la congregazione eremitica di Paola:

«Sixtus etc. venerabili fratri episcopo Sancti Marci salutem etc. Hiis que pro piorum locorum, personarumque quarumlibet presertim sub humulitatis spiritu Altissimo sua vota exhibentium commodo et utilitate pie processasse comperimus ut illibata persistano libenter cum a nobis petitur mandamus apostolici muniminis adiici firmitatem. Exhibita liquide nobis nuper pro parte dilecti filii Francisci de Paula heremite Cusentin. Diocesis petitio continebat quod dudum postquam venerabilis frater noster Pirrus Archiepiscopus Cusentin. Sibi quod quoddam oratorium sive ecclesiam sub vocabulo Sancti Francisci in tenimentode Paula prefate diocesis edificare posset licenzia concesserat prefatus Franciscus oratorium huiusmodi propriis minibus et expensis cum dormitorio pro usu et habitat ione sua et sociorum pro magna parte edificavit et nonnullos socios vitam heremiticam ducengtes recepit. Ipseque Archiepiscopus prefatum oratorium sive ecclesiam una cum omnibus iuribus et pertinentiis siis prefato Francisco eiusque Congregationi imperpetuum donavit et nonnulla alia eorum devotioni et saluti cenvenientia salutifera et oportuna concessit fecit et ordinavit prout in literis dicti Archiepiscopi desuper confectis dicitur plenius contineri. Quare pro parte Francisci et heremitarum predictorum asserentium quod oratorium seu heremitorium predictum adhuc pro sufficienti habitatione ipsorum perfectum omnino non est illudque ex piis Christifidelium elemosinis cum dormitorio et aliis necessariis officini continuo edificant ampliant et exornant nobis fuit humiliter supplicatum ut concessioni predicte ac omnibus et singulis in dictis litteris contentis pro illorum subsistentia firmiori robur apostolice confirmationis aidicere de benigni tate apostolica dignaremur. Nos igitur qui de premissis certam noticiam non habemus huiusmodi supplicationibus inclinati fraternitati tue per apostolica scripta mandamus quatenus si et postquam vocatis qui fuerint evocandi tibi de permissis legitime constiterit concessionem et litteras predictas ac omnia et singula in dictis litteris contenta prout ea concernunt auctoritate apostolica approbes et confirmes suppleasque omnes et singulos defectus si qui forsan intervenerint in eisdem. Nos enim si approbationem et confirmationem huiusmodi per te vigore presentium fieri contigerit ut prefertur eidem Francisco et eremiti ut omnibus et singulis privilegiis indulgentiis et gratiis quibus fratres Petri de Pisis noncupati ceterique heremite potiuntur et gaudent uti gaudere pariformiter et absque ulla differentia libere et licite possint et valeant concedimus per presentes non obstantibus constitutionibus et ordinationibus apostolicis ceterisque contrariis quibuscumque. Dat. Rome apud sanctum Petrum anno Inc.nis Dmce millesimoquadragintesimo septuagesimotertio, Tertiodecimo Kal. Julii anno secundo»[136].

 

Il processo andò a buon fine, tanto che il 17 maggio 1474, Sisto IV approva in forma piena la congregazione degli Eremiti di San Francesco di Assisi sorta in Paola, con la Bolla Sedes Apostolica, nella quale si legge:

«Cum autem sicut exhibita nobis nuper pro parte vestra petitio continebat Venerabilis frater Gofredus episcopus Sancti Marci prefatus ad executionem predictarum nostra rum litterarum illarum forma servata procedens quia sibi vocatis vocandis de nobis expositis legitime constiterat licenzia donationem concessionem  ordinationem et litteras archiepiscopi predicti omniaque et singula in eis contenta prout ea concernunt auctoritate apostolica approbaverit et confirmaverit suppleveritque omnes et singulos defectus qui intervenerunt in esidem prout in quodam publico Instrumento desuper confecto dicitur plenius contineri; quodque Pirrus Archiepiscopus prefatus inter alia per eum vobis tunc concessa predictum heremitorium sive ecclesiam sancti Francisci et alia quecumque loca oratoria ecclesis per vos imposte rum recipienda cum omnibus Iuribus et pertinentiis suis heremitisque et personis inibi tempore degentibus ac rebus omnibus ad vos locaque vestra quomodolibet pertinentibus et spectantibus ab omni Iurisdictione subiectione et superiori tate matrum ecclesiarum ac sua sueque ecclesie Cusentin. Ceterarumque persona rum imperpetuum exemit et liberavit ac sub protectione sub missione et Iurisdictione Sedis apostolice spetialiter et expresse remiserit et relaxaverit. Et sicut eadem  petitio suibiungebat a nonnullis asseratur nostras prelibatas litteras ac confirmationem approbationem et defectuum suppletionem ceteraque omnia alia et singula per prefatum Gofredum Episcopum Santi Marci illarum vigore facta et inde secuta quecumque iuribus non subsistere pro eo quod Archiepiscopus predictus per sua predictas litteras tefratrem Franciscum in superiorem  huiusmodi tue congregationis patrem rectorem et priorem seu quovis alio nomine nuncupandum dederit et deputaverit cui Conhregationi prees ac vita et exemplis profuisset tuisque monitis mandati set preceptis salubri omnes huiusmodi congragatis persine obedire et parare debent […]Et de eisdem nichilominus, concessionisbus gratiiis et indulti vobis sicut premittitur per prefatum Archiepiscum concessis in dictis aliis nostris literis spetialiter et dicendo nonnulla alia vestre devotioni et saluti convebìnientia salutifera et oportuna et similiter sub eadem clausula et non facta alia expressione per predictum Goffredum episcopum Sancti Marci predicta omnia et singula aprrobata et cum suppetione defectum confirmata fuerant prout in nostris ac dicti Archiepiscopi literis ac instrumento publico desuper confecto plenius continentur. Pro parte vestra nobis fuit humiliter lsupplicatum ut omnia et singula premissa concessones gratias et indulta vobis per archiepiscopum predictum concessa facta et indulta necnonapprobationem confirmationem defectuumque suppletionem ceteraque omnia et singula per prefatum Gofredum Episcopum vigore nostra rum literarum predictarum desuper facta et inde secuta quecumque rata et grata habentes approbare confirmare ac omnes et singulos defectus qui intervenerunt in eisdem supplere ac alias in premissis et circa ea vobis de oportuno remedio providere de benigni tate apostolica dignaremur.

Nos igitur vestris in hac parte supplicationibus inclinati donationem concessionem ordinationem constitutionem remissionem relaxationem indulta gratias et literas prefati Archiepiscopi omniaque et singula in eis contenta nostrasque alias ac dicti Archiepiscopi literas ac apprpbationem confirmationem et defectuum suppletionem per prefatum Gofredum Episcopum factas ac processus desuper habitos et inde secuta quecumque omniaque et singula que in predictis nostris ac prenominati Archiepiscopi litteris et processi bus et instrumentis publicis desuper habitis contenta pro sufficienter espressi ac si de  verbo ad verbum presenti bus insererentur rataque et grata habentes auctoritate apostolica ac ex certa scientia laudamus approbamus et confirmamus ac presentis scripti patrocinio communimus supplemusque omnes et singulos defectus qui intervenerunt in eisdem decernentes nostras predictas literas ac processus desuper habitus»[137].

 

Poco dopo, in un documento datato 17 maggio 1474, si conferma quanto già concesso dal vescovo di San Marco Goffredo per delega apostolica nel documento sopra osservato del 19 giugno 1473:

«Ad perpetuam rei memoriam. Fr. Francisco de Paula et cateris Fratribus Eremitis eremitorii seu oratori S.Francisci (Assisiensis) de Paula, Cusentin. dioc., praesentibus et futuris, confirmat omnia quae ex delegazione apostolica fecerat Goffredus, Episcopus Sancti Marci, pro Congregatione dicti Fr. Francisci de Paula eamque sub immediata Apostolicae Sedis iurisdictionie constituit eique concedit quod omnibus privilegiis Fratrum Minorum aliorumque Fratrum Mendicantium gaudeat. Dat. Rome apud Sanctumpetrum, anno Inc.nis d.mnce MCCCCLXXIIII, Sextodecimo Kal. Iunii, Pont. n.ri anno tertio.

Sedes Apostolica»[138].

 

Ritroviamo tracce dell’attività del vescovo Goffredo in due documenti riguardanti l’affido in commenda del monastero basiliano di S.Ciriaco di Buonvicino. Il primo, datato 23 ottobre 1479 reca la richiesta dell’assegnazione dellufficio di abate:

«Episcopo Sancti Marci mandat ut Michaeli de Sclavis, clerico Catacen., familiari et medico suo, commendet monasterio S.ciriaci de Bombicini, O.S. Bas., Sancti Marci dioc., vac. per ob. Jeronimi extra R.C. def. DAt. rome, apud Sanctum petrum, Anno Inc.nis d.mnce anno millesimoquadrigentesimonono, decomo kal. Novembris, pont. n.ri anno nono.

Romani pontificis»[139].

 

Il secondo documento, datato 6 novembre 1479, ci conferma l’avvenuto incarico e si sofferma su questioni amministrative relative alle entrate correlate:

«Die predicta, ven.lis vir. d.nus Michael de Sclavis, clericus Cathacen., artium et medicine Mgr., d.ni n.ri ppe cubicularius et medicus, principalis obligavit se camera ap.lce, pro annata monasterii S.ti Ciriaci terre bombicini, ord.is S.Basilii, Sancti Marci dioc., cuius fructus Quinquaginta fl. Auri de camera, vacaturi per declarationem serreptionis aliarum lettera rum apl.rum super dicto monasterio expeditarum extra Romanam curiam faccenda vocatis vocandis. Et mandat. Commendari sub dat. Rome, decimo kl novembris, anno nono»[140].

 

Al 1479 risale pure la concessione ai vescovi di San Marco della baronia, ovvero della giurisdizione civile e di altri diritti feudali, su Mongrassano, allora ripopolata da una comunità albanese. L’abitato era stato offerto alla mensa episcopale dal principe di Bisignano, Geronimo Sanseverino.

Il successivo vescovo di San Marco, Rutilio di Zenone, originario di San Martino di Riparo in Basilicata, venne confermato nel suo ufficio con un documento datato 26 gennaio 1484:

«Rutilius Zenoni de Zenone fit episcopus Sancti Marci in Calabria, per ob. Gaufridi extra R.C. def. DAt. Rome, apud Sanctumpetrum, Anno Inc.nis d.mnce MCCCCLXXXIII, Septimo kal februarii, anno Tertiodecimo. – Apostolatus officium.

S.m.: Capitulo ecclesiae Sancti Marci: “Hodie”; Clero civitatis et dioc.; Populo civitatis et dioc.; Universis vassallis; Ferdinando, Regi Siciliae: “Gratie divine”»[141].

 

Tra il 1488 e il 1490 troviamo nominato nei documenti ufficiali non il vescovo Rutilio ma un suo vicario, il che ci fa supporre il suo allontanamento dalla sede vescovile in quel periodo. Il primo documento, datato  14 giugno 1488, si riferisce alla cappella di S.Maria in Fiore, situata al confine della Chiesa di Cirella, nella diocesi di San Marco:

«Archiepiscopo Rossanen. et Abbati monasterii S.Ciriaci de Bonvicino, Sancti Marci dioc., ac Vicario Episcopi sancti Marci in spirituali bus generali mandat ut Leoneto d’Aerengiis, presbitero Rossanen. dioc., provideant de cappella S.Mariae de Flore, sita infra limites ecclesiae de Cirella, Sancti Marci dioc., certo modo vac. Dat. Rome, apud Sanctumpetrum, Anno Inc.nis d.mnce MCCCCLXXXVIII, Decimoctavo kl Iulii, Anno Anno Quarto.

Vite ac morum honestas»[142].

 

Il secondo documento rilevante  è datato 12 settembre 1490, e riguarda l’affido del monastero di S. Ciriaco di Buonvicino a Giovanni Battista di Roscano:

«Archiepiscopo Neapolitan. Et Episcopo Rapolan. Ac. Vicario Episcopi Sancti Marci in spirituali bus generali. Iohanni Baptistae de Roscano, clerico Neapolitan., providetur de monasterio S.Ciriaci de Bombicino. O.S. Bas., Sancti Marci dioc., vac. per cessionem Iacobi de Urso abbatis. Dat. Rome, apud Sanctumpetrum, Anno Inc.nis d.mnce MCCCCLXXXX, Pridie Id. Septembris, Anno septimo.

Romani pontificis»[143].

 

Di fatto, sappiamo che nel 1492 il vescovo titolare fece parte, insieme all’Arcivescovo di Cosenza, del seguito di alti prelati che accompagnò da Napoli al Vaticano il Cardinale Giovanni d’Aragona, secondogenito del re Ferdinando I. In questa occasione egli svolse il ruolo di ambasciatore del Re di Napoli presso il papa, recitando, una volta giunti a roma, una apprezzata orazione per l’occasione[144].

Sappiamo che prima di rivestire la dignità episcopale, il Zenone era stato precettore, insieme ad Antonio da Sessa, di Francesco d’Aragona (1461-1484)[145], il che fa luce sui rapporti con il re e sulla sua presenza nell’ambasceria sopraricordata.

Il vescovo Rutilio tornerà ancora a Napoli, come dimostra un altro documen to del 17 marzo 1508:

«S.Marci et Isclan. Episcopis, Neapoli commorantibus. Commissio pro Bernardino de Sancto Severino, Principe Bisiniani. Dat. rome die 17 marii 1508, an. Quinto.

Mittimus fraternitati vestre»[146].

 

Non abbiamo purtroppo altre indicazioni sulla natura della visita.

Nel 1515, subentrerà al vescovo Zenone, Aloisio de Amato, già vescovo di Lipari:

«Aloysius (de Amato, episcopus Liparen., ad ecclesiam S.Marci transfertur, vac. Per cessionem Rutilii (Zenonis). Dat. rome, apud Sanctumpetrum, an. LDXIIII, VII Kal. Februarii, an. II – Romani pontificis.

S.m.: Ferdinando, Aragoniae et Siciliae regi. Capitulo ecclesiae S.Marci Clero civ. et dioc.. Populo civ. et dioc.»[147].

 

Si rileva inmargine alla scarna registrazione sopra riportata che in essa non si fa riferimento alla dipartità di Zenone, né ad un suo trasferimento ad altra sede, ma si parla semplicemente di “cessione” dell’ufficio episcopale, Avvenuta poco prima della registrazione stessa, datata 26 gennaio 1515.

Al vescovo Aloysio sono poco dopo destinati alcuni benefici situati in altre diocesi, come registrato in un documento datato 25 febbraio dello stesso anno:

«Aloysio, episcopo S.Marci, resenrvantur fructus canonicatus et praebendae ac parochialis ecclesiae S.Theodori de Casali Triparni et S.Angeli de Tiriolo et portionis ecclesiae de Annuntiata, per duos solitae regi rectores, Militen. Et Neocastren. Ac Tropien. Dioc. Dat. Rome, apud Sanctumpetrum, an. MDXIIII, V Kal. Martii, an.II – Personam tuam.

S.m.: Cavallicen., et centen. Episcopis ac Vicario generali episcopi Tropien[148].

 

Durante il suo governo della diocesi due documenti fanno luce su alcuni eventi diversamente notevoli. Il primo, datato genericamente 1515, fa riferimento alla concessione di una indulgenza come compenso per la liberazione di tale Ludovico Ferdinando di Roscito dalla prigionia dei Turchi. Si tratta di una scarna registrazione che non presenta neanche la provenienza dell’atto e, tuttavia, per la particolarità del contenuto merita menzione. Per quanto non sia stato possibile rintracciare ulteriori notizie sull’indirizzario dell’indulgenza né sul soggetto riscattato, di fatto il documento mostra l’interesse della Chiesa per la liberazione di un cristiano in un periodo in cui l’avanzata ottomana stava accerchiando l’Europa da più fronti, con continui attacchi di eserciti “regolari” e atti di pirateria:

«Indulgentia pro stipem dantibus pro redemptione Ludovici Ferdinandi de Roscito, s.Marci dioc., a capti vitate Turcharum»[149].

Il secondo documento di interesse, egualmente datato 1515 e già osservato nella sezione dedicata a Malvito, fa riferimento al presunto assassinio del vescovo Abbondanzio: spetta al vescovo Aloysio assolvere gli abitanti della città per le colpe dei loro predecessori.

Non ci sono notizie successivamente a queste che riguardino il successivo vescovo, Rutilio, né i suoi successori, almeno sino al 1535.

Ritroviamo infatti solamente registrazioni di assegnazioni di benefici e incarichi o commende, come quella datata 13 ottobre 1516 a favore di Ferdinando di Cosca sul monastero di San Ciriaco di Buonvicino:

«Die XIII dicti (mensisi), D.nus Aloysius gibraleon, nomine Ferdinandi de cosca, obligavit se pro annata monasterii S.Ciriaci de Terra bimbicini, O.S.Bas., S.Marci dioc., vac per cessione commende Francisci de raimo, cl.ci Neapolitan., cuius fructus 50 duc. Non excedunt, et commendari mandatur dicto Ferdinando, sub. Dat. VII Kl. Octobris, an. IV»[150];

 

o quella relativa al monastero di Santa Maria di Camigliano, datato 1 ottobre 1529[151]:

«Bernardino Gaudioso, clerico S.Marci dioc., commendatur monasterium S.Mariae de Camigliano, O.S.B., rossanen. dioc., vac. per resignationem Antonii, tt. Apollinaris pbri Card.lis. Dat. Interamne, V idus octobris, an. VI»[152];

 

o, ancora, quella del priorato di sant’Andrea, datata 31 dicembre 1532:

«Episcopo Castellimaris et Claudio Milanino, canonico ecclesiae Taurinen., ac Vicario generali Archiep.i Taurinen. Avantio (Cricca), episcopo S.Leonis, commendatur prioratus S.Andreae, loci de Gamillano, O.S.A., Taurinen. Dioc., vac. per cessionem Guillelmi de Gamillano, commendatarii. – Dat. Bononie, an. MDXXXII Pridie kal. Ianuarii, an. X. Personam ven. fr.»[153].

 

Un solo documento, datato peraltro 3 novembre 1534, nomina il Vicario generale del vescovo di San Marco, senza indicare il nome di quest’ultimo:

«Gabrieli Scarniglia providetur de parochiali ecclesia, archipresbyteratu nuncupato, S.Petri de Rogiano, S.Marci dioc., vac. per resignationem Marci de Mango, cum mandato Caietan. Et Casertan. Episcopis ac Vicario generali episcopi S.Marci de executione. Dat. ut s.

Rationi congruit»[154].

 

Sembra invece, che durante quetso periodo si siano avvicendati almeno due vescovi nella diocesi. Il primo fu Aloisio d’Amato, di Amantea, che ricoprì l’ufficio vescovile tra il 1515 e il 1518, trasferitovi dalla diocesi di Lipari, «vir in utraque virtute insignis, longiori aevo merito»[155]. Sappiamo che prese parte al V Concilio Lateranense, nel quale venne pure promulgato un decreto nel quale si indiceva la guerra ai turchi e si imponevano le decime su tutti i benefici ecclesiastici nel mondo cristiano, per tre anni.

Nel 1530 Clemente IV designò il nuovo vescovo di San Marco, Coriolano Martirano; tuttavia un documento datato 29 aprile 1535 ci parla di una proproga di 4 mesi per la consacrazione:

«Coriolano Martirano, electo S.Marci prorogatur terminus 4 mensium ad suscipiendum munus consecrationis. Dat rome, 29 aprili 1535, an.I°.

Meritis tue devotionis»[156];

 

il che ci fa ipotizzare che fino a quella data il vescovo non avesse effettivamente intrapreso il proprio uffcio. Cosentino, grande conoscitore della lingua greca, sappiamo che il Martirano godette di un certo prestigio presso la Santa Sede.

Sotto il suo vescovato si riscontrano vari atti e registrazioni che testimoniano la sua attività, ma solo alcuni sono degni di nota. Il primo di essi riguarda una prescrizione liturgica:

«Ad perpetuam rei memoriae. – Ad petitionem Nicolai, Card.lis de GAddis, mandat Vicarii generali bus episcopo rum Bisinianen. Et S.Marci, ut Fratribus Min. Obs. Conventus Cusentin. prohibeant quominus campanas pulsent in sabato sancto, antequam in cattedrali ecclesia sonoum emiserint et subministrent fidelibus in Paschate, antequam a proprio parocho receperint, communionem iuxta Constitutiones Concilii Lateranensi set praecedens Breve. Dat. rome, apud S.Petrum, sub annulo Pisc., die VI Novembris MDXXXVI, Pont. n.ri an.III

Exposuit nobis»[157].

 

Datato 6 novembre 1536, il documento fa riferimento alla richiesta di attuazione dei dettami del V Concilio Lateranense: nello specifico la richiesta proviene dal cardinale de Gaddis ed era diretta ai Frati Minori Osservanti. Si è già avuto modo di accennare alla questione della diffusione e rafforzamento dei Minori Osservanti a scapito degli Spirituali nell’area Calabra e, tutavia, la specifica prescrizione qui menzionata non sembrano esservi degli estremi per ricollegarla a tale più ampio contesto, semmai a quello dell’applicazione dei dettami conciliari come lascia intuire lo stesso incipit del documento («Ad perpetuam rei memoriae»).

In un altro documento, datato 15 febbraio 1541, lo vediamo ricevere la commenda dell’abbazia di San Ciriaco di Buonvicino:

«Die XV februarii 1541, Rev. P. d.nus Coriolanus Martiranus, ep.us S.Marci, cui als abbatia parochialis ecclesie forsan vel als nuncupata S.Quiriaci de terra Bonvicini, S.Marci dioc., per ob. Ferdinandi de Loria, commendata fuit sub dat. IX kl. Dicembri, an. VII, promisit solvere infra sex menses »[158].

Sappiamo che per due anni, il vescovo coriolano presenziò ai lavori del Concilio di Trento, ovvero dal 1545 al 1546 e un documento datato proprio 7 gennaio 1546 ci offre una ulteriore testimonianza di tale partecipazione:

«Coriolani Martirani, peiscopi S.Marci, oratio habita in concilio Tridentino.

Verum est, ut aiunt»[159].

 

Il vescovo Coriolano morì nel 1557 e un documento del 15 dicembre dello stesso anno registra la decisione presa in un concistoro tenuto a San Pietro, di porre sul seggio vescovile vacante Giovanni Antonio della Tolfa, caonico napoletano, il quale mantenne l’ufficio sino al 1561:

«Rome, apud S.Petrum, ecc. fuit consistorium, in quo […] Providit ecclesie S.Marci, vac, per ob. Bo.me. Coriolani Martirani, de persona R.D. Io Antonii de la Dulpha, canonici Neapolitan»[160].

 

Atto confermato da un altro documento che recca la stessa data, nel quale si indica il della Tolfa  come successore del vescovo Coriolano Martirano:

«Io. Antonius de Tulfa, canonicus Neapolitan., fit episcopus S.Marci, per ob. Coriolani Martirani. Dat. rome, apud S.Petrum, an. Inc.nis d.mnce MDLVII, XVIII Kal. Ianuarii, Pont.us n.ri an. III.

Apostolatus officium»[161].

 

Nel 1562 il vescovo Giona Antonio della Tolfa rimette l’ufficio vescovile a Pietro della tolfa, previo consenso della Sede Apostolica, come testimoniano due documenti datati 17 aprile:

«Rome, apud S.Petrum, die veneris, XVII Aprilis 1562, fuit Consitorium […]  Referente Rev.mo (Carolo) Borromeo, Providit ecclesie S.Marci, tunc per cessionem Rev.di d.ni Iohannis de Tulfa ep.i in minibus S.Sue sponte factam et admissam, vac., de persona Petri etiam de Tulfa, clerici NEapolitan., cum reservatione medietatis fructuum pro cedente, de consensu Petri electi»[162];

 

«Iohannes de la Tulfa, clericus Neapolitan., fit episcopus S;Marci, per cessionem Iohannis de la tulfa. Dat. Rome, apud S.Petrum, an. MDLXII, XV Kal. Maii, an. III

Apostolatus officium»[163].

 

Un successivo concistoro conferma l’elezione di Pietro della Tolfa al seggio vescovile di San Marco, come documenta una registrazione datata 31 agosto dello stesso anno:

«Rome, apud S.Marcum, die lune, ultima menisis Augusti 1562, fuit consistorium […] Referente Rev.mo (Carolo) Borromeo, Providit ecclesie S.Marci, tunc per ob. Bo.me. Petri de la tulfa, pespicopi ex. Ro.Cu. def. Vac., de persona d.ni Fabritii Landriani, clerici Mediolanen., salva remanente reservatione medietatis fructuum Rev.mo d.no Io. Antonio, episcopo nuper S.Marci »[164].

 

L’avvicendamento dei due vescovi avviene, previo risreva della metà dei frutti dell’ufficio vescovile al vescovo precedente. Tuttavia, ilm nuovo vescovo potè ricoprire l’ufficio per breve tempo, poiché morì quelo stesso anno. Gli succedette Fabrizio Landriano, allora impegnato nel concilio Tridentino, come testimonia un documento datato 21 novembre 1562 che registra laconicamente l’arrivo del vescovo a Trento:

«Addì XXI (novembre 1562) gionse  (a Trento) Mons. Rev.mo Fabritio Landriani, Urbinense, vescovo di Santo Marco»[165].

 

Un documento datato 10 febbraio 1563 registra la concessone di indulto al vescovo senza però specificare altro che una somma corrispondente di quattromila ducati:

«FAbritio (Landriani), episcopo S.Marci, conceditur indultum testanti usque ad summam 4 millium duc.. Dat. Rome, apud S. Petrum, die X Februarii 1563, an. 4°.

Cum, sicut nobis»[166].

 

Non vi sono altri atti rilevanti che riguardano la sua opera sia pure di breve durata, poiché morì di lì a tre anni. Gli successe il Cardinal Guglielmo sirleto, eletto in un concistoro tenuto a Roma, nella Chiesa di San Marco, come testimoniato da un documento datato 6 settembre 1566:

«Rome, apud S.Marcum, die veneris, VI Septembris 1566, fuit consistorium […] Proponente S.mo D.N. Providit ecclesie S.Marci in Calabria, vac. per ob. Bo.me. fabritii Landriani, de personaq Rev.mi Card.lis Sirleti, cum retentione omnium que obtinet»[167].

 

Lo spoglio dei documenti osservti testimonia una fitta attività epistolare del vescovo Sirleto volta all’esecuzione di svariati atti concernenti il proprio ufficio. Ad esempio, sappiamo che il 20 settembre 1566 il sirleto scrisse al Barone di Cagliano, G.G. Morano, cui inviava il Breve della propria nomina a vescovo di San Marco, raccomandandogli di inviare il prima possibile l’exequatur al vescovo di Bisceglie[168].

Sappiamo poi che il Cardinal Sirleto non prese immediatamente diretto possesso della diocesi di San Marco, poiché il 20 settembre delegò a tale scopo il canonico Bernardino Motta di Castrovillari[169] e sembra che la sua consacrazione sia comunque avvenuta solo il 13 ottobre 1566:

«Die Dominico, XIII octobris §81566), S.mus in cappella Sixti (IV) Cardinales Io. Baptistam Gambaro, electum Viterbien., Guillelmum sirletum, Card.lem S.Laurentii in Panet et Perna, electum S.Marci, et Inicum Avalos de Aragona, electum Militen. consecravit»[170].

 

Un documento datato 9 aprile 1567 chiama in causa il vescvo di San Marco, ma significativamente, fa riferimento pure al suo vicario generale e arcibresbitero della chiesa di Santa Maria del Seggio in sostituzione del Sirleto:

«Episcopo S.Marci sive eius Vicario generali et Archipresbytero ecclesiae S.Mariae del Seggio, S. Marci dioc. - Pro Mgro Francisco FAvasi , de terra Belviderii, confirmatio concessionis in emphiteusim perpetuam cuiusdam petii terrae aratoriae, in tenimento Belvederii situm et ad ecclesiam S.Basilii, graciam seu membrum abbatiae S.Mariae de aquaformosa pleno iure spectantis, eidem ab abbate seu perpetuo commendatario dictae abbatiae factae. Dat. Rome, in camera aplca, an. 1567, Ind. X, die vero IX Aprilis, Pont.us […] an. II»[171].

 

Si trattava della conferma della cessione in enfiteusi perpetua di un terreno situato presso Belvedere. Il fatto che l’azione richiesta sia indirizzata sia al vescovo che al vicario («sive») ci farebbe propendere per l’ipotesi dell’incertezza della sua presenza in dicoesi per avallare quanto richiesto.

E infatti, una successiva lettera del Cardinale sirleto al Principe di Bisignano, datata 12 maggio 1567, ci svela che il vescovo era stato chiamato a Roma ed aveva conseguentemente dovuto lasciae la diocesi le cui cure avrebbe comumunque continuato a seguire[172].

Un’altra lettera, questa volta inviata al Cardinal Sirleto da Bernardino Motta di Castrovillari, lo educe sulla visita questi stava compiento nei paesi tirreni della diocesi, raccomandandogli di appoggiare l’arciprete di Cirella presso il Principe di Bisignano[173]. I successivi documenti sono costituiti, infatti, dal fitto carteggio tra il vescovo titolare e vari personaggi della diocesi: esse sono il frutto e la testimonianza della sua cura per S.Marco, nonostante l’assenza.

Sappiamo, infatti, che il Cardinal Sirleto ha curato la sistemazione della biblioteca Vaticana: grande e profondo conoscitore delle lingue antiche, compreso l’ebraico, sembra si sia anche occupato della trascrizione delle tradizioni orali sui martiri argentanesi e sul passaggio dell’apostolo Marco, ad opera di Giovine di Taranto.

Numerose sono le lettere in cui descrive la propria tristezza per essere stato costretto a lasciare la propria diocesi, offendo comuqnue i propri servigi soprattutto in seno alla Curia[174].

In un’altra missiva il cardinale ciede al vicario generale di S.Marco di inviargli una causa di tale Giovanni Misichi di Rossano che proprio a lui si era appellato[175].

Lo sappiamo ancora lontano dalla diocesi il 25 gennaio del 1568, data in cui gli venne inviata una relazione di d. Marcello Sirleto sul governo della diocesi di San Marco[176]. Ancora il 1 febbario 1568, Barnardino Motta scriverà al sirleto in merito all’uccisione del tesoriere della chiesa di San Marco, proponendo l’avvicendamento del nipote nell’incarico poiché a quello esso era comunque riservato sia il regresso che il canonicato, previo constatato consenso di d.Marcello Sirleto che abbiamo già incontrato precedentemente nelle missive del vescovo e che sappiamo essersi prodigato in sua vece nella diocesi[177].

In un documento datato il 27 febbraio successivo il cardinal Sirleto viene dispensato dal vincolo d’ufficio presso la diocesi di San Marco per prendere possesso del seggio vescovile della diocesi di Squillace:

«Rome, apud S.Petrum, Die Veneris, 27 februarii 1568, fuit consistorium […] Proponente S.te S., absolvit d.num Guillelmum a vinculo quo tenebatur ecclesiae S.Marci et eum transtulit ad ecclesiam Squillacen., vac. per cessionem R.p. Alphonsi (de Villalobos), cum reservatione omnium et quorumcumque que obtinet»[178];

 

a sua volta confermato da un Breve recante la medesima data:

«Guglielmo Card.li SIrleto, promoto ad ecclesiam Squillacen., datur licentia capiendi possessionem dicta ecclesiae, litteris non expeditis»[179].

 

La vacanza della diocesi di San Marco avrebbe dovuto portare alla successiva assegnazione del seggio tanto che il Capitolo e il clero di San Marco e, successivamente, anche il sindaco, gli eletti e altre personalità della città, chiedono al cardinal Sirleto di prodigarsi affinchè Marcello Sirleto ottenesse la nomina[180].

I successivi documenti che registrano l’attività del vescovo di San Marco non fanno riferimento alcuno a chi ricoprisse effettivamente tale incarico. Ci si riferisce qui a un documento datato 10 novembre 1568, in cui si fa riferimento all’assegnazione dell’arcipresbiterato della Collegiata di S.Nicola di Cirella[181];

«Episcopo S.Marci mandatur ut gilberto Sarginto provideatur de archipresbyteratu collegiatae S.Nicolai, loci de Cirella, S.Marci dioc., vac. per ob. Aurelii Leonis. Dat. Rome, apud S. petrum, an. III.

Dignum arbitramur et congruum»[182];

 

e ad un altro documento in cui si fa riferimento all’arcidiaconato della chiesa di S.Marco:

«Episcopo S.Marci. – Camillo Gaudiosi providetur de archidiaconatu ecclesiawe S.Marci, qui inibi est dignitas post pontificalem maior et curam animarum gerit, amoto Iulio Sanseveroino, qui se gerit pro clerico et eidem canonice collatum, per decennium et ultra pacifice possidens, sed ad sacros ordinaes promoveri non se fecit. Dat. ut S. –

Dignum arbitramur et congruum»[183].

 

In entrambi i documenti si fa riferimento al vescovo di San Marco, senza, però, nominarlo. Sappiamo però con certezza che il cardinal Sirleto non doveva più ricoprire tale ufficio, se in una missiva datata 6 marzo 1569 Gian Leonardo Pisanolo pregava di intercedere per lui presso il nuovo vescovo di San Marco, al fine di ottenere il tesorierato di quella Chiesa[184].

Un documento datato fine marzo dello stesso anno fa, tuttavia, riferimento alla vacanza del seggio vescovile:

«Guido FErrarus, Card. lis VErcellen., proponit ecclesiam S:Marci, in Regno Neapolitan. Et Provincia Calabriae Citrae, sub dominio Ill.mi Principis Bisignanen., vac. per traslationem Ill.mi et Rev.mi D.ni Card.lis Sirleti ad ecclesiam Squillacen., in persona R.D. Organtini Scarola, Tabernensis, eiusdem Prov. Familiaris S.D.N.»[185].

 

Non ci è dato sapere se d.Marcello Sirleto abbia assunto il vicariato della diocesi o meno, poiché i due docuemnti sopra riportati non accennano la cosa ma sembrano ignorare la sia vacanza, sia l’ipotetica assegnazione al Sirleto come richiesto dagli argentani. Di fatto, Organtino Scarola venne eletto vescovo di San Marco a seguito del trasferimento del cardinal Sirleto alla diocesi di Squillace, come afferma un altro documento datato 1 aprile:

«Organtinus Scarola, pbr., I.U.D., fit episcopus S.Marci, vac per traslationem Guillelmi Sirleti ad ecclesiam Squillacen. Dat. Rome, apud S.Petrum, an. Inc.nis d.mnce MDLXVIIII, Kls, Aprilis, Pont.us n.ri an. VI.

Apostolatus officium»[186].

 

Lo Scarola, originario di Taverna, ricevette la consacrazione il 16 aprile:

«Die sabbati in Albis, XVI Aprilis (1569)), Scipio Card.lis REbiba, Card.lis Pisan., consecravit Organtinum Scarola, Tabernatem, et Gregoriium Cruce, electos in episcopos S.Marci et Marturanen., assistentibus sibi Iulio Ant. Santoro, Archiep.o S.Severine, et Thoma Gabriello, epo.o»[187].

 

Sappiamo che tra i primi atti del nuovo vescovo figura l’accolgimento di una richiesta promossa dallo Scarola e dalla sua comunità di origine, afferente peraltro ad altra diocesi:

«Ad perpetuam rei memoriam. – Supplicante Organtino, episcopo S:Marci et Communitate Tabernarum, Cathacen. Dioc., indulgetur quod processio, quae fieri solebat feria tertia Resurrectionis d.mnce ab ecclesia Fratrum Predicatorum ad ecclesia S.Mariae de Gratia, Ord. Min., transferatur ad dominicam in Albis cum eadem indulgentia. Dat. Rome, apud S.Petrum, sub annulo Pisc., die II Maii 1569, Pont.us n.ri an.IV

Apostolicae Sedis»[188].

 

Non si hanno notizie delle ragioni di tale trasferimento, il quale doveva sicuramente stare a cuore dello Scarola. Più ricca di mistero è, tuttavia, una breve annotazione che lo riguarderà di lì a poco: in data 10 maggio, gli viene ocncessa licenza di trarre una certa somma dal patrimonio provinciale, senza che vi sia fatto alcun riferimento alla sua destinazione:

«Organtino Scarola, episcopo S:Marci, datur licentia extrahendi libere et licite e Provincia Patrimonii 200 rubra tritici, Dat. rome, die X Maii 1569, Pont.us […] an.IV»[189].

 

Si rileva in margine che il cardinal Sirleto doveva pure avere ancora sicuro credito in terra argentana e non solo, anche successivamente alla traslazione, se in un altro documento datato 2 settembre 1569 egli raccomanda il nuovo vescovo al Viceré di Napoli, a d.Maria Castriota Scandenberg e al Principe di Bisignano[190].

Di fatto, sappiamo che il cardinal Sirleto non cessò di occuparsi ufficiosamente delle cose della diocesi, poiché ci sono giunte numerose missive che ne testimoniano l’interessamento, ad iniziare da quella inviatagli dallo scarola, nella quale comunica il suo ingresso in diocesi, avvenuto il 10 ottobre del 1569[191].

Un’altra lettera, datata 9 aprile 1570, venne inviata dal vescovo Scarola al cardinal Sirleto con notizie particolareggiate sugli albanesi residenti nella diocesi: il vescovo di San Marco aveva, infatti, dovuto inviare alla comunità diversi religiosi per istruirli sui sacramenti e sulla fede cattolica. Il vescovo scarola parla della loro precedenze conoscenza ed esercizio di fede religiosa come di «ciechi guidati da ciechi», vantando i frutti di questa ri-catechizzazione nelle nuove generazioni, tanto che «i loro putti (ché cosa meravigliosa) insegnano adesso ai loro padri il Pater noster»[192].

Ma ancor più emblematico è un altro documento, nel quale i roggianensi si rivolgono non al vescovo Scarola, ma al cardinal Sirleto per richiedere il ritiro della scomunica comminata loro dal vescovo di San Marco per averne preso il grano, perché, si spiega, spinti dalal fame. Il documento reca la data del 29 aprile 1570.

In un altro documento, datato 6 marzo 1571, questa volta è il vescovo di San Marco a rivolgersi al cardinal Sirleto per denunciare una violazione di giurisdizione:

«Il Vescovo di S.Marco (Organtino Scarola) denunzia al Card. Sirleto la violazione della sua giurisdizione ecclesiastica da parte dell’Ufficiale del Vescovo di Bisignano, il quale, alla vigilia di Natale passato, con gente armata in alcuni casali albanesi della dioc. di S.Marco, invase la chiesa degli Italiani e impose che i preti albanesi, che sono scismatici e ignoranti, celebrassero messa in quel luogo. Di San Marco a dì VI di marzo del MDLXXI»[193].

Il riferimento è sicuramente al rito greco scismatico che il vescovo di San Marco aveva evidentemente allontanato dall’esercizio, inviando religiosi affinchè istruissero la popolazione sul rito latino , come testimonia la precedente missiva osservata. Non si comprende quale potesse essere, in tale frangente, il ruolo del vescovo di Bisignano e non ci sono altrimenti note suppliche degli albanesi in tal senso, né si intravedono retroscena politici assimilabili: possiamo, tuttavia, registrare che il passaggio da unrito all’altro non dovette essere indolore.

Un documento datato 21 aprile 1571, relativo alla richiesta di portare in giudizio una questione riguardante tale Lucrezia Sacchini, fa riferimento diretto alla volontà del vescovo di San Marco ma anche alla sua possibile sostituzione da parte di quella del suo Vicario, evidentemente, in sua assenza:

«Episcopo S.Marci sive eius Vicario generali mandat ut iudicet, in secunda istantia, super praetensa obreptione seu subreptione vel falsitate cuiusdam dispensationis, als. Obtentae a Lucretia Sacchini, muliere civ. S.Marci. Dat. Rome, apud S.Petrum, sub annulo Pisc., die XXI Aprilis MDLXI, Pont.us n.ri an.VI.

Nuper pro parte»[194].

 

Ancora al cardinal Sirleto si rivolge il vescovo di Bisceglie, G.A. Segnazzi di Castrovillari, l’8 agosto del 1571: con l’occasione di esprimere il proprio dolore per la dipartita di Pietro Graciano, evidentemente vicino al cardinale, il Segnazzi lo prega di ottenergli il vescovato di S.Marco, con la motivazione della possibilità di prendersi cura dei pupilli di tale Cav. Motta[195]. Sappiamo che il vescovo di Bisceglie non ottenne la nomina al seggio di S.Marco e, tuttavia, all’epoca della supplica, il vescovo titlare era ancora vivente. Questi morirà l’anno seguente e verrà nominato suo successore Ippolito Bosco, su proposta del caridnale Flavio Ursino:

«Ego Flavius Card.lis Ursinus, in proximo consisto rio, referam de ecclesia S.Marci, acqua promovendus est R.D. Hippolitus Boschi, Saonen, abbas S.Salvatoris Victorii de Granzano, Casalen. dioc., ac praepositus ecclesiae Saonen».

 

Il documento reca la data del 9 giugno 1572 e la nomina avvenne di lì a poco, se un documento datato 16 giugno, riporta la decisione presa dal concistoro tenuto a Roma:

«Rome, apud S.Marcum, die lune, 16 Iunii 1572, fuit consistorium […] Referente Rev.mo (Flavio) Ursino, Providit ecclesiae S.Marci, vac. per ob. Organtini (Scarola), ex Ro. Cu. Def., de persona Ippoliti Boschi, pbri et praepositi Saonen, I.U.D.»[196].

 

La consacrazione avverrà il 12 agosto successivo dal cardinal Lomellino:

«Die dominico, 14 septembris (1572), Ill.mo Card.lis Lomellinus, in cappella Magna Palatii (Sistina) consecravit Hippolitum Bosco, electum S.Marci, Prov. Calabriae, assistenti bus sibi Leonardo Turchi et Petro Francisco Ferro, Neulen. Et Polignan. episcopis»[197].

 

Ippolito Bosco ricoprirà l’ufficio di vescovo di San Marco sino al 1576, anno in cui verrà trasferito alla guida della diocesi di Foligno.

Abbiamo sue notizie in relazione ad una questione finanziaria. In una lettera del nunzio Simonetta al cardinal Galli si fa cenno alla rihciesta del vescovo di San Marco di disporre dei frutti della sua chiesa per le spese di culto: il parere del nunzio è positivo in tal senso[198]. La lettera reca la data del 23 otobre 1572, il che ci fa ipotizzare che a quella data il nuovo vescovo non fosse ancora entrato pienamente in possesso dei benefici correlati al proprio ufficio.

L’unico altro atto registrato dai documenti che riguarda il vescovo Bosco è relativo alla possibilità di concedere dei beni di pertinenza dell’abbazia di Santa Maria della Matina, in enfiteusi perpetua:

«Episcopo S.Marci et eius Vicario generali. Carlo Carazolo, abbati seu commendatario abbatiae S.MAriae de Matina, S.Marci dioc., proviso a Paulo III sub dat. Rome, apud S.Petrum, an. MDXXXIV, pont.us sui an.I, datur facultas concedendi in emphiteusim perpetuam nonnulla bona, ad dictam abbatiam pertinentia. Dat. Rome, apud S.Petrum, an. MDLXXII, Idus Martii, an.I»[199].

 

Si avrà modo di tornare ampiamente sulle vicende dell’abbazia nelle pagine successive. Per ora tanto basti per suggerire che, nel pur breve periodo nel quale il vescovo Bosco fu posto alla guida della diocesi di San Marco, ebbe modo di interessarsi delle ocmplesse vicende amministrative dei beni ecclesiastici che segnavano da un lato il lento declino dell’abbazia di Santa Maria della Matina e, dall’altro, adombrano le altre cure pastorali di cui i nostri documenti difficilmente riescono a renderci conto, se non in casi eccezionali.

Il 30 gennaio 1576 il vescovo bosco verrà trasferito alla guida della diocesi di Foligno ed, al suo posto, ricoprirà l’ufficio episcopale di San Marco Matteo Guerra.

«Rome, apud S.Petrum, die veneris, 30 Ianuarii 1576, fuit consistorium […] Referente S.mo, absolvit Matthaeum (Guerra) a vinculo quo ecclesie Fundan. Tenebatur et eum transtulit ad ecclesiam S.Marci vac. per translationem Hippoliti Boschi ad ecclesiam Fulginaten»[200].

 

Originario di Cosenza, il vescovo Guerra era un celebre teologo: intervenuto al Concilio tridentino e nominato vescovo di Fondi, si trasferì a poi San Marco dove finì il resto dei suoi giorni, nell’aprile del 1578.

L’unico documento che regsitra la sua attiità è una dispensa per l’impedimento di parentela di secondo grado relativamente al matrimonio di Antonio Grreco e Maria Moscivulino, contratto secondo una forma contraria a quanto stabilito dal Concilio di Trento:

«Episcopo S.Marci. – Pro Antonio Greco, laico, et Maria Moscivulino, muliere, terra Cirellae, S.Marci dioc., dispensatio super impedimento secundi gradus affinitatis, pro matrimonio contracto contra formam conc. Tridentini. Da. Rome, apud S.Petrum, sub annulo Pisc., die 23 novembris 1576, an. V.

Oblata nobis»[201].

 

Il 2 giugno 1578 Giovanni Antonio Grinito diviene vescovo di San Marco:

«Rev.mo DIulius Ant. Card.lis S.Severinae praeconizavit ecclesiam S.Marci, vac. per ob. Bo.me Matthaei (Guerra), de mense aprilis def., de persona Io. Antonii Grignetta, prbri Neapolitan., I.U.D., Utriusque Iuris consultoris Universitatis Neapolitan. Et Prothonotarii Aplci.»[202].

 

La proclamazione del nuovo vescovo viene confermata da altri due documenti, recanti la medesima data:

«Rome, apud S.Petrum etc. Referente REv.mo S.Severinae, providit ecclesie S.Marci, Sedi aplce immediate subiecte, vac. per ob. Matthaei Guerra, de persona Io. Antonii Grignetta, pbri NEapolitan., I.U.D.»[203];

 

«Io. Antonius Grignetta, pbr NEapolitan. U.S. Ref., fit episcopus S.Marci per ob. Matthaei (Guerra), ex R.C. def.. Dat. Rome, apud S.Petrum, an. MDLXXVIII, IV, Non. Iunii, an. VII.

Apostolatus officium»[204].

 

Già consulente dell’Università di Napoli e protonotaio apostolico, il vescovo Grinito siederà sul seggio di San Marcio fino al 1585.

Il primo atto registrato che coinvolge il nuovo vescovo è la concessione di una indulgenza per una particolare pratica religiosa, in data 10 settembre 1578:

«Ad perpetuam rei memoriam. – Universis et singulis Christifidelibus civ. Et dioc. S.Marci conceduntur indulgentiae pro orantibus horis vespertinis. Dat. rome, apud S.Petrum, sub anulo Pisc., die X Septembris 1578, an.VII.

Sacre orationi institutum»[205].

 

Il documento reca la supplica del vescovo di San Marco per la concessione dell’indulgenza stessa. Il 20 dicembre successivo ritroviamo, invece, la dichiarazione del privilegio concesso all’altare della Beata Maria Vergine nella cattedrale di San Marco, testo riportato su una lapide presso la chiesa stessa, poi andata distrutta:

«Ad perpetuam rei memoriam. – Altare B.Mariae Virginis, in cattedrali S.Marci, declaratur privilegatum. Dat. apud S.Petrum, an. Inc.nis d.mnce MDLXXVIII, XIII Kl. Ianuarii, Pont.us n.ri an. VII»[206].

 

In data 30 gennaio del 1568 troviamo un altro documento nel quale il nuovo vescovo concede all’abate commendatario Carlo Caracciolo di concedere in enfiteusi perpetua altri beni di pertinenza dell’abbazia della Matina:

«Episcopo S.Marci sive sius Vicario generali et primam vel aliam dignitatem in ecclesia S.Marci obtinenti. – Carolo Caracciolo, abbati seu commendatario abbatiae S.Mariae de Matina, cist. Ord., S.Marci dioc., datur licentia concedendi in emphiteusim perpetuam quoddam petium terrae, situm in loco ubi dicitur “de petra biancha”, ad dictam abbatiam npertinens, roberto Valentino, dictae civ. S.Marci. Dat. rome, in camera aplca, an. A Nativ. D.mi 1568, Ind. XI, die vero XXX Ianuarii»[207].

 

Più interessante, un’altro documento datato 13 aprile 1579 registra la concessione dell’assoluzione di Marco Antonio Scariello per aver dato un pugno ed aver insultato un cantore della Chiesa di San Marco:

«Episcopo S.Marci sive eius Vicario generali. Pro Marco Ant. Scariello, incola civ. S.Marci, absolutio, quia als, cum obiurgaret cul Io. Dominico Martirano, cantore ecclesiae S.Marci, in publica platea eum contumeliis effecit et pugno percussit. DAt. Rome, apud S.Petrum, sub annulo Pisc., die XIII Aprilis MDLXXVIIII, Pont.us n.ri an.VII

Exponi nobis»[208].

 

L’autorità ecclesiastica entra qui nel merito di questoni apparentemente afferenti più all’ordine pubblico che a quello spirituale, il che ci dimostra l’esistenza di una determinata prassi di gestione della legalità nel momento in cui la Chiesa ne era in qualche modo coinvolta. Infatti, ritroviamo anche un altro documento, datato 27 novembre 1356, questa volta relativo alla conessione dell’assoluzione di alcune persone, previa restituzione dei beni e del testamento del defunto Giovanni Bernardini, indebitamente sottratti dagli stessi:

«Episcopo S.Marci sive eius Vicario generali. Pro Iacobo Bonelli et Io. Matthaeo Pastoro et Io. Dominico Rogliano et Petro Ant. Lanzi et Io. Ant. Caesari, laicis, necnon Margaritha de Olivares, vidua quondam Io. Bernardini Ferrari, de terra Rogiani, S.Marci dioc., qui, post sepulturam dicti Io. Bernardini, cum Gabriele Greco, asserto pbro et canonico ecclesiae S.Marci, et nonnullis aliis, ad domum defuncti se contulerunt, testamentum ipsius abstulerunt et multa bona mobilia et immobilia notabilis valori set 150 vaccas portaverunt et alia perpetrarunt, absolutio, cum ipsi ad restitutionem sint parati. Dat. rome, apud S.Petrum, sub annulo Pisc., die XXVII Novembris MDLXXVIIII, pont.us n.ri an. VIII.

Sedes Aplca»[209].

 

Un documento, di poco precedente, testimonia, invece, la presenza dei pirati turchi sulle coste calabre, poiché riguarda la raccolta di denaro destinata al riscatto di due uomini originari della diocesi catturati e resi schiavi:

«Hortatorium pro redemptione Iosephi Mitii, laici s.Marci dioc., et Io. Petri de Petrello, a piratis Turcis captorum et Tunetum in miserrima servitute obductis, pro quorum redemptione praetium 100 duc. Requiritur. Dat. rome, apud S.Petrum, an. 1579, XIII Kal., 7bris, pont.us n.ri an. VIII.

Ex omnibus christianae charitatis officiis»[210].

Questo documento, come gli altri già osservati descrive appena una situazione di precarietà in cui le città che si trovavano sulle coste vivevano e conducevano i propri traffici marittimi[211]. Le numerose torri di avvistamento ancora oggi visibili sulle coste calabre, come quella di Cirella, ci fanno appena intravedere un passato di forte pressione della flotta ottomana regolare e, soprattutto, irregolare per tutta l’Europa, assediata dall’espansione ottomana almeno fino alla vittoriosa battaglia di Lepanto del 1571 cui parteciparono numerosi calabresi[212]. E proprio ad essa fa riferimento una assoluzione concessa a Giovanni Angelo Salvagni, chierico:

«Episcopo S.Marci sive eius vicario generali. Pro Io. Angelo Salvagnis, clerico terrae Consilae, S.Marci dioc., absolutio ab irregularitate, contracta ex eo quod an. 1571, in diconatus ordine constitutus, cum classe Christianorum contra Turcas dimicavit et scolo, quem gerebat, ac catastromatibus unius triremis fortiter pugnavit et aliquem ex hostibus interfecit. Dat. ut. S.

Exponi nobis»[213].

 

Numerose sono poi le dispense per impedimento matrimoniale per grado di affinità concesse, come quella datata 1580 accordata a Pietro Cublecaro e a Cremisica:

«Pro Petro Cublecaro, laico et Cremisica, muliere, S.Marci dioc., dispensatio super impedimento consanguineitatis vel affinitatis»[214];

 

o quella riconosciuta a Cardela Ciriani e ad Ameta, datata 1583:

«Pro Cardela Cariani, laico et Ameta, muliere, S.Marci dioc., dispensatio super impedimento consanguineitas vel affinitatis»[215].

 

Un documento recante data 5 febbraio 1582 reca notizia di una indulgenza concessa alla Confraternita di Sant’antonio di Padova, senza però specificarne la natura:

«Indulgentia pro Confraternitate S.Antonii de Padua in ecclesia domus O.M.O.bs., civ. S.Marci. Dat. Rome, apud S.Petrum, die V februarii 1582, an.X.

De salute dominici gregis»[216].

 

Qualche notizia in più reca, invece, un altro provvedimento che recava la concessione di una indulgenza di ben sette anni e quaranta giorni per l’ammissione nella Confraternita della chiesa della Beata Maria del Soccorso, altrimenti ignota:

«ro confratribus confraternitatis in ecclesia B.Mariae de Succursu, prope et estra muros terrae S.Agathae (d’Esaro), S.Marci dioc., indulgentia Septem anno rum et totidem quadragenarum in die receptionis seu admissionis. Dat. rome, apud S.Marcum, an. Inc.nis d.mnce MDLXXXIIII, Idus Iulii, Pont.us n.ri an.XIII.

Salvatoris nostri»[217].

 

Abbiamo invece notizia di un particolare relativo alla salute del vescovo titolare da un altro documento, nel quale si gli viene concessa una dispensa speciale per poter mangiare carne, uova e latticini anche in periodi nei quali si richiedeva astinenza da essi:

«Io Antonio (Grignetta), episcopo S.Marci, continuo podagrae morbo laboranti et valetudinario, datur licentia vescendi carne, ovi set lacticinis, temporibus prohibitis, de utriusque medici consilio.Dat. tusculi, sub annulo Pisc., die XXII Aprilis MDLXXXII, pont.us n.ri an.X.

Sincere devotionis affectus»[218].

Il vescovo Grinito soffriva, dunque, di podagra ovvero di gotta, oggi nota come malattia del metabolismo caratterizzata da attacchi infiammatori ricorrenti alle articolazioni. Nota fin dall’antichità, la malatia veniva generalmente associata ad un’alimentazione a base di carne quale solo i più abbienti potevano permettersi e i cui rimedi variavano: nel nostro caso, la “terapia” prevedeva, invece, il loro uso.

Ma i sette anni di vescovato del Grinito ci offrono ancora altre interessanti notizie, soprattutto in merito ad un personaggio illustre e benemerito della nostra diocesi, quale Albensio Rossi di Cetraro. Un documento datato 13 gennaio 1585 reca la conferma dell’erezione di un ospizio per i poeri da lui eretto alle porte della città di origine:

«Ad perpetuam reim memoria. – albensio de Rubeis (Rossi), heremitae, et aliis successori bus de Rubeis, terrae Citrarii, iurisdictionis monasterii Monticassini, O.S.B., Prov. Cusentin., confirmatur erectio unius domus prope portam inferiurem dictae terrae, ad effectuum pauperes ibidem hospitio recipienti, et unius ecclesiae seu cappellae sub invocazione SS.mae Trinitatis, de licentia Ordinarii constructae, cum mandato Parentin. Et S.Marci et Bisignanen. episcopis de executione., Dat. rome, apud S.Petrum, an. Inc.nis  d.mnc MDLXXXIIII, Idibus Ianuarii, an. XIII.

Regimini universalis ecclesie»[219].

 

Nato nel 1542 a Cetraro, Albensio Rossi proveniva da una famiglia benestante ma, come era frequente in quel tempo, vennea avviato sin da giovane al sacerdozio. Scelse tuttavia l’abito eremitico, più confacente alla propria spiritualità, intraprendendo una peregrinazione per l’Italia meridionale che lo condusse poi a Gerusalemme da cui ritornò con una prodigiosa icona della Madonna delle Grazie che recò con sé a Roma e donò alla Chiesa di Porta Angelica. Colpito dai tanti poveri che affollavano con le loro miserie la città eterna, e dai pellegrini bisognosi di ricovero e cure, chiese aiuto a papa Sisto V che, il 3 giugno 1587, gli concederà un piccolo terreno nel rione Borgo, ove poter costruire un ospizio dove eremiti, poveri ed ammalati potessero essere accolti. Il nostro documento reca invece la concessione per l’erezione di un consimile ospizio alle porte di Cetraro, il Ritiro e gli annessi ospedale e Chiesa della SS.Trinità. A Roma ottenne dal papa l’approvazione papale per una congregazione eremitica e qui morì il 19 aprile 1606. Il suo corpo fu sepolto nella Chiesa dell’Ascensione ove era conservata la venerata immagine della Vergine[220].

In 25 febbraio 1585, un documento nomina un tale Del Tufo, come referente per il cardinal D’Aragona presso il cardinal Carafa per la provvista della chiesa di San Marco[221].

Non siamo sicuri che si tratti dello stesso Marco Antonio del Tufo poi eletto vescovo di San Marco e, tuttavia, le probabilità che si tratti della stessa persona sono elevate.

Di fatto, il suo nome viene esplicitamente citato in un altro documento del 10 maggio nel quale viene proposto come successore del vescovo Grignito alla guida della diocesi di San Marco:

«Card.lis S.Xisti proponit ecclesiam S.Marci, vac. per ob. Antonii, pro Marco de Tufo»[222].

 

Il 21 ottobre, Marco Antonio del Tufo viene proclamato vescovo di San Marco, come attestano il seguente documento:

«Rome, apud S.Petrum, die veneris, 10 Maii 1585, fuit Consistorium […] Referente Rev.mo S.Sixti providit ecclesiae S.Marci, Sedi Aplcae immediate subiectae, vac. per ob. Ioannis Antonii, ex R.C. def., de persona Rev.di  D.Marci Antonii de Tufo, pbri Neapolitan., U.S. Ref., cum reservatione pensionis annuae 200 duc. Pro Carolo Baldino»[223];

 

Il suo fu un vescovato di breve durata, poiché il 21 ottobre venne trasferito alla diocesi di Mileto:

«Rome, apud S.Petrum, dielune, 21 octobris 1585, fuit consistorium […] Referente Rev.mo (Innico Avalos) de Aragona, absolvit R.D. Marcum Antonium de Tufo a vinculo, quo ecclesie S.Marci tenebatur, et eum transtulit ad ecclesiam Militen., vac., per ob. Bo.me. Io Marie de Alexandris »[224].

Sappiamo che il vescovo Del tufo governò l’ampia diocesi di Mileto sino al 1606, indicendo ben tre sinodi diocesani nel 1588, nel 1594 e nel 1595[225].

Non abbiamo nessuna testimonianza dei suoi atti come titolare della diocesi di San Marco. Negli anni successivi si susseguirono molti vescovi che ebbero modo di guidare la diocesi per periodi più o meno brevi.

Sappiamo dal Conti[226] che proprio Giovanni Maria De Alessandris, già vescovo di Mileto dal 1 ottobre, poi sostituito dal Del Tufo il 12 dello stesso mese, ricevette contestualmente il vescovato di San Marco che lasciò però poco dopo. Dovette trattarsi di trasferimento in via provvisoria, se il 21 ottobre 1585 venne eletto al soglio vescovile di San Marco, Francesco Antonio degli Afflitti in sostituzione proprio del vescovo Del Tufo:

«Rome, apud S.Petrum etc., Referente Rev.mo  de Aragona, providit ecclesiae S.Marci, vac. per traslationem Marci Antonii de Tufo ad ecclesiam Militen., de persona R.D. Antonii de Afflictis, pbri in 32 aetatis suae anno costituti, canonici Amalphitan., reservata pensione 200 scut. auti pro Horatio Fresco»[227].

 

Si rileva un elemento degno di nota: sarà lo stesso vescovo del Tufo a consacrare Francesco Antonio degli Afflitti come vescovo di San Marco, il 27 ottobre:

«Die dominica, 27 octobris 1585, Rev.dus D.Marcus antonius de tufo, episcopo Militen., in cappella Sixtina in Palatio Aplco consecravit in episcopum S.Marci R.D. Franciscum Antonium de Afflictis, assitentibus sibi RR. DD. Dominico Petrucci, episcopo Bisignanen., et Fr. Angelo, epsiscopo Ciprio »[228].

 

Non abbiamo atti degni di nota che riagurdino questo vescovo che di lì a poco passò a miglior vita, nella città di Belvedere, tano è vero che il 13 ottobre dell’anno successivo venne nominato un nuovo vescovo, Antonio Migliori:

«Rome, in Monte Quirinali, apud Hortos Rev.mi Esten., die lune, 13 octobris 1586, fuit consistorium […] S.te sua proponente, providit ecclesiae S.Marci, vac. per ob. Bo.me Franc.Antonii de Afflicits, de persona Antonii Meliori, S.S.Cappellani»[229].

 

Atto confermato da altre due scritture successive:

«Antonius Meliori, cappellanus intimus, fit episcopus S.Marci, per ob. Franc. Antonii (de Afflictis). Dat. Rome, apud S.Marcum, an. Inc.nis d.mnce MDLXXXVI, III Idus Octobris, Pont.us n.ri an.II.

Apostolatus officium»[230];

 

«Pro Antonio (Meliori), electo S.Marci facultas capiendi possessionem suae ecclesiae, litteris non expeditis. Dat. rome, apud S.Marcum, die XVIII»[231].

 

Già cappellano Maggiore di papa Sisto V, mantenne il titolo di San Marco sino al 1591, anno nel quale vi rinunciò. Se si eccettuano due provvedimenti di assoluzione la cui esecuzione e/o notifica si demanda genericamente al vescovo titolare di San Marco o al suo vicario[232], un solo documento risveglia il nostro interese, sebbene si tratti di una mera registrazione. Si tratta della relazione sulla diocesi di San Marco, elaborata dal vescovo Migliore e  consegnata in occasione della visita ad limina al papa in data 20 marzo 1590, come registrato nelle relazioni delle visite ad Limina:

«Relatio status ecclesiae S.Marci, facta ab Antonio Meliore, episcopo. Dat. XX Martii 1590»[233].

 

Contestualmente, il vescovo titolare manifestò ufficialmente la propria intenzione di rinunciare al titolo vescovile di San Marco che venne affidato, il medesimo giorno a Ludovico Alferio, chierico cortonese e auditore del cardihnal Scipione Gonzaga:

«Rome, apud S.Petrum, etc. Referente Rev.mo Camerinen., providit ecclesiae S.Marci, vac. per cessionem Antonii de Melioribus, de persona Ludovici Alferii, clerici cortonen., auditoris D.Card.lis Scipionis Gonzaga»[234].

 

Fu infatti lo stesso cardinal Gonzaga a consacrare l’Alferio alla dignità episcopale, il giorno seguente nella Chiesa di Santa Maria del Popolo:

«Dominica in Albis, die 21 aprilis 1591, Scipio Card.lis Gonzaga consecravit Ludovicum Alpherum, electum S.Marci, in ecclesia S.Mariae de Populo»[235].

 

Al nuovo vesvovo è indirizzato un documento che reca un chiarimento su una prassi correlata alla liturgia battesimale:

«Congr. Ep. Et Reg. – Al vescovo di San Marco: “La consuetudine che chi porta la creatura al battesimo contraha la cognatione spirituale, è nulla”»[236].

 

Un’altra raccomandazione gli giungerà dalla medesima fonte in data 26 luglio 1593:

«Cong. Ep. Et Reg. – Al Vescovo di San Marco: “Non si devono per constitutione privare del sacramento quelli che haveranno volontà di far la pace ò mostrare offitii di charità, ma in ciò si osservi li ordini del concilioProvinciale di Ravenna, fatto dal Card.le di Urbino»[237].

 

Si doveva trattare, evidentemente, di una serie di applicazioni di ordini di sinodi e concili cui viene chiamato il nuovo vescovo.

Tuttavia il primo documento di interesse è la sua rinuncia ad una commenda, previo riserva di una pensione annua, in data 9 luglio 1593 e relativa all’Ospizio di santo Spirito in Sassia[238].

Durante il suo vescovato, dovevano continuare le scorrerie dei pirati turchi, se un documento datato 16 settembre 1593 registra la supplica per due persone, registrando il riscatto di altre due:

«Marcellus Pari, laicus ex oppido Maierà, S.Marci dioc., oriundus, significat quod, ex suo tenui patrimonio, redemit duos ex suis nepotibus, qui cum patre, eius fratre, et altero nepote, inn manus turco rum ceciderunt et in servitutem redacti fuerunt. Quia zius frater et alter ex nepotibus captivi apud Turcos remanserunt, hortatorium ad subveniendum eidem pro eorum redemptione. Dat. Rome, apud S.Marcum, an. Inc.nis d.mnce MDLXXXXIII, XIV Kal. Octobris, Pont.us n.ri an.II.

Ex omnibus Christianae charitatis officiis»[239].

 

Il vescovo Alferio morì l’anno successivo e il 3 ottobre 1594 divenne vescovo Giovanni Gerolamo Pisano:

«Rome, in Monte Quirinali, die lune, 3 Octobris 1594, fuit consitorium […] Referente Card.le S.Georgii, providit ecclesie S.Marci, vac. per ob. Ludovici Alpherii, de persona Io. Hieronimi Pisani, cum retentione compatibilium et reservatione pensionis annue 200 scut. Pro personis nominandi»[240].

 

Il primo documento degno di nota che riguarda il nuovo vescovo gli ocncede la facoltà di conferire una serie di benefici, dietro supplica, datato 7 luglio 1595:

«Episcopo S.Marci datur facultas conferendi 4 simplicia beneficia, videl. Praebendam sub invocazione S.Angeli, vac. per ob. Io. Baptistae de la Voglia, de mense Maii ex. Ro.Cu def.; et praebendas S.Mariae ad Pergulam, vac. Per ob. Andreae Sansosti, de mense Octobris 1594 def.; et sub titutlo S.Salvatoris et S.Mariae, vac. Per promotionem Io. Mariae Sansosti ad Archipresbyteratum; et canonicatum Don Pauli Boiani, sub invocatione S.Leonardi , conferenda Io. Baptistae Pasquali de S.Marco. Dat. Rome, apud S.Marcum, die 7 Iulii 1595, an.4°

Cum, sicut nobis»[241].

 

Si tratta della concessione di una serie di prebernde di cuiil vescovo diviene tramite per la concessione, il che ci da pure la misura delle incombenze sostanzialmente amministrative di tale ufficio. Più interessante è però un documeto datato 17 aprile del 1597, nel quale il vrescovo è chiamato ad assolvere e benedire gli abitanti di Ruggiano, i quali con buona probabilità dpvevano essere incorsi nelle ire della Chiesa per qualche azione non meglio specificata di cui si accenna semplicemente l’estrema gravità:

«Episcopo S.Marci mandat ut absolvat et benedicat incolas terrae seu loci Ruggiani, S.Marci dioc. qui in eorum bonis, possessioni bus et agris gravissima damna passi sunt et timent ne, ob eorum graves culpas vel aliquas censuras haec advenerint. Dat. Rome, apud S.Marcum, sub annulo Pisc., die 17 Aprilis 1597, a.VI.

Exponi nobis»[242].

 

Già altre volte, nelle pagine precedenti abbiamo incontrato la comminazione di scomunica e la successiva assoluzione per furti, ad esempio, di cui erano state accosate intere comunità e questo caso non deve esulare da un tale ambito. Di certo non dovrebbe trattarsi di colpe commesse nei confronti diretti del loro vescovo, considerando che non abbiamo traccia di specifiche denunce da parte del Pisano.

Un altro documento, datato 31 luglio 1599 ci riporta sul piano dell’esercizio dell’autorità ecclesiastica in merito a quello che oggi si definisce un reato contro la persona, confermando la prassi già accennata di gestione della legalità nel momento in cui la Chiesa ne era in qualche modo coinvolta:

«Episcopo S.Marci. – Pro Hannibale de Aragona, Vicario generali, et Antonio amato, clerico S.Marci seu alterius dioc., absolutio, quia als cum Guardiano Ord.Min.Obs. eiusdem S.Marci dioc., verba habuerunt, et baculo eum percusserunt. Dat. rome, apud S.Patrum, aub annulo Pisc., die XXXI Iulii MDXCIX, Pont.us n.ri an.VIII.

Exponi nobis»[243].

 

Numerose sono, invece, le dispense per impedimento di consanguineità di vario grado che vengono però demandate al vicario generale del vescovo[244].

Il 1 luglio del 1602 succederà al Pisano, il vescovo Aurelio Novarino:

«Rome, in Monte Quirinali, die 1° Iulii 1602, fuit consistorium […] referente Rev.mo Trusco, providit ecclesie S.Marci, vac. per ob. Hieronimi Pisani, de persona R.D. Aurelii Novarini, quem transtulit de ecclesia Ragusin., cum retentione denominationis Archiep.i Ragusin.»[245].

 

Il novarino era stato trasferito alla diocesi di San Marco da quella di Ragusa. E qui rimarrà sino alla morte, avvenuta nel 1607. Non sono emersi documenti rilevanti la sua azione vescovile nella presente ricerca, se si eccettuano due note. La prima, datata 19 aprile 1606, ove si registra la spedizione di una relazione sulla diocesi[246].

La seconda nota riguarda la concezione di una indulgenza per la confraternita del SS.Sacramento di Belvedere:

«Ad perpetuam rei memoriam. – Pro Confraternitate SS.Sacramenti in ecclesia maiori terrae Bellovideri, S.Marci dioc., indulgentia plenaria in festo SS.mi Sacramenti, et septem anno rum in festivitatibus Assumptionis B.M.V. S.Francisci de Paula et S.Danielis Martyris. Dat. rome, apud s.Petrum, die 20 Aprilis 1606.an. I»[247].

 

Il fatto che l’indulgenza sia stata concessa anche per la festa di S.Daniele, martire francescano insieme al gruppo di frati da lui guidato nel 1227[248], che si ritiene nativo di Belvedere (appartenente al casato Fasanella), offre la prova che il culto calabro dei cosiddetti Sette Martiri di Ceuta sia più antico di quanto non ritengano alcuni storici[249].

Il 10 dicembre 1607 verrà eletto vescovo di San Marco, Giovan Vincenzo Consacco:

«Rome, apud S.Petrum, die X Demebris 1607, fuit consistorium, in quo S.mus D.N., referente Bonifacio, card. Caetano, providit ecclesiae S.Marci, vac. per ob. Bo. Me. Aurelii Novarini, de persona Io. Vincentii Consacchi, pbri Amerin., I.U.D. et U. Sig. Ref., cum retentione beneficii S.Mariae in cattedrali Amerin.»[250].

 

Nobile amerino, aveva ottenuto l’episcopato da papa Paolo V, e subito lo vediamo impegnato in un contenzioso con l’abbazia di Montecassino, come testimonia un documento nel quale il nuovo vescovo intima all’abate cassinense di restituire una serie di beni mobili ed immobili (comopresi quelli «occultis detentori bus ablata»), pena la scomunica:

«Episcopo S.Marci sive eius vicario Generali mandat. Ut Abbati et conventui monasterii Montiscassini faciat, sub poena excommunicationis, restituire bona mobilia et immobilia, val. plus quam 50 duc., eisdem ab occultis detentori bus ablata.Dat. romae, apud S.Marcum, sub annulo Pisc., die 15 Iulii 1608, an. Iv.

Significaverunt nobis »[251].

 

Dopo aver guidato la diocesi per alcuni anni, il vescovo Giovanni Vincenzo morì a Roma, in casa del fratello Bernardino a soli 46 anni[252]. Si ricordano tra i documenti relativi al suo vescovato, innanzitutto la concessione di due indulgenze, la prima alla confraternita del SS.Nome di Gesù di Belvedere, datata 1 dicembre 1609:

«Pro Confraternitate SS.mi Nominis Iesu in ecclesia S.Mariae de Populo, terrae Belvedere, S.Marci dioc., indulgentia in festo eiusdem SS.mi Nominis Iesu.Dat. Rome, apud s.Petrum, an. In.nis d.mnce 1609, kal Decembris, Pont.us n.ri, an. V.

De salute gregis dominici»[253];

 

la seconda, datata 15 maggio 1610, alla confraternita di San Sebastiano:

«Pro Confraternitate S.Sebastiani, in ecclesia S.Sebastiani domus Ord. Fr. S.Francisci de Poenitentia, terrae Fagnani, S. Marci dioc., indulgentia in festivitatibus ipsius S.Sebastiani et annuntiationis et Puruficationis et Assumptionis B.M:V. et Nativitatis Domini. Dat. rome, apud s.Petrum, an. Inc.nis d.mnce MDCX, Idibus Maii, Pont.us n.ri an.V».

 

Essendo quasi giunti al termine dello spoglio della documentazione da me fatta, occorre l’obbligo di aggiungere una brevissima digressione sul significato e sulla prassi della concessione di questo tipo di indulgenze nel contetso storico del quale ci si sta occupando, per meglio comprenderne il significato nel più ampio contesto dell’azione vescovile stessa.

La dottrina dell’indulgenza è attualmente un aspetto della fede cristiana che riguarda la remissione parziale o intera delle conseguenze di peccati perdonati attraverso la confessione. Concessa tanto ai vivi quanto ai morti a titolo di suffragio, lungo i secoli le forme di concessione di alleggerimento per il carico della penietenza per i peccati furono molteplici e contemplarono opere meritorie, oblazioni, corrompendosi in forme teologicamente errate. Le indulgenze citate dai presenti documenti fanno riferimento al commento di azioni ritenute meritorie e spesso comprendono una quantificazione in anni o giorni di “sconti” purgatoriali, come da prassi invalsa sino al 1967, anno in cui papa Paolo Vi, nella costituzione apostolica Indulgentiarum doctrina la abolì, mantenendo la sola distinzione tra indulgenza plenaria e parziale e fissando una serie di norme in materia[254].

Un altro documento datato gennaio del 1610 sembra richiamare in causa la destinazione di certi beni, la cui sorte e/o uso sembra registrare l’accordo della volontà del vescovo e di quella degli abitanti di Belvedere evidentemente direttamente interessati:

«Confirmatio concordiae inter Veincentium (Consachi), episcopum S.Marci, et Universitatem et nomine terrae de Belvedere, S.Marci dioc., super quibusdam bonis, si in utilitatem ecclesiae S.Marci »[255].

 

Gli ultimi documenti esaminati fanno emergere un piccolo mistero. Sappiamo che il vescovo Giovanni Vincenzo Cansacco era ancora vivo e in possesso del titolo vescovile nel 1616 poiché, di fatto, un documento datato 16 dicembre del 1616 lo vede autore di una relazione sullo stato della diocesi di San Marco. Tuttavia, ben cinque documenti datati tra il 13 novembre e il 13 dicembre 1613, registrano, viceversa, l’elezione e la consacrazione a vescovo di San Marco di Gabriele Nari, domenicano di nobile famiglia romana:

«Rome, in Monte Quirinali etc. Providit ecclesie S.Marci, vac. per ob. Bo.me. Io. Vincentii Consachi, de persona R.P.D. Gabrielis Nari, pbri O.P., I.U.D. et Theol. Doct.»[256];

 

«Commissio pro recipiendo iuramento fidelitatis a Gabriele (Nari), electo S.Marci. Dat. ut s.

Cum nos hodie»[257];

 

«Gabriele Nari, electo S.Marci, facultas capiendi, possessionem suae ecclesiae, litteris non expeditisi. Dat. Rome, apud S.Petrum, sub annulo Pisc., die XIIII Novembris 1613, an.9°.

Cum nos nuper»[258];

 

«Gabriel. Nari, electus S.Marci, praestitit iuramentum in minibus alexandri, tt. S.Laurentii in  Damasco, pbri card.lis Peretti»[259];

 

«Feria 6, die 13 Decemris, in festo S.Luciae, Marcellus, tt.SS.Quirici et Iulittae pbr Card.lis Lante, in ecclesia S.Mariae supra Minervam, consecravit in episcopum et  pastorem Gabrielem Nari, O.P., electum S.Marci, assistenti bus Vincentio Camerota, episcopo Bellicastren., et Paulo Ursino, episcopo Montisalti».

 

La quantità e la precisione die riferimenti dei documenti attestanti l’elezione al seggio vescovile del Nari, farebbero supporre una plausibile retrodatazione della relazione del Consacco, altrimenti difficilmente coniugabile.

Qui si ferma lo spoglio della documentazione da me operato ma, ovviamente, la storia della nostra diocesi è ricca di eventi e personaggi di rilievo sino ai nostri giorni.

 

 

Santa Maria della Matina

Una menzione a parte merita l’abbazia di Santa Maria della Matina. Fondata per volere di Roberto il Guiscardo e di sua moglie Sichelgaitatra il 1059 e il 1061, quale monastero benedettino[260]. La prima notizia certa sul monastero risale al 31 marzo del 1065, quando la chiesa venne dedicata a Santa Maria, per volere di papa Alessandro II. La cerimonia fu officiata da arcivescovo di Cosenza, Arnolfo, e da Oddone vescovo di Rapolla e da Lorenzo vescovo di Malvito, alla presenza di Roberto e della moglie Sichelgaita e dell'abate del monastero, Abelardo.

Il Guiscardo fece dono all’abbazia di parte del territorio precedentemente assegnato alla diocesi di Malvito, a fronte della cui perdita il vescovo Lorenzo ricevette un compenso in denaro di trenta schifani (o schifati) d’oro.

Riccamente dotata dai normanni per tutto il periodo della loro dominazione,  ricevette vari privilegi sia da papi che da re, che la resero ricca e potente.

Una successiva conferma dei privilegi accordati al monastero da Roberto il Guiscardo si ha nel seguente documento, datato 30 settembre 1066 e conservato presso l’archivio Aldobrandini[261], dove ricompare il nome dell’abate Abelardo:

«Monasterium S.Mariae de Matina, cui praeest Abelardus Abbas, tuendum suscipit eique omnes possessiones, iura et privilegia a Roberto Duce concessa, confirmat. Dat. Salerni, pridie Kal. Octobris, anno VII, ab incarnazione Domini MLXVI, Indict. IV»[262].

 

Precedentemente casale agricolo annesso al monastero e appartenente al vescovo di Malvito, doveva essere stata condotta da una comunità di monaci basiliani, almeno sino all’arrivo del Guiscardo che ne ebbe ragione con un drappello di cavalieri, senza troppi sforzi[263].

La posizione, proprio all’inizio della piana dell’Esaro e Follone, la rendeva strategicamente rilevante per chiunque dovesse attraversare la piana partendo dal campo fortificato di San Marco verso Cosenza o verso Rossano, costituendo pure un nodo viario essenziale lungo la direttrice da Reggio a Capua[264].

L’insediamento dei monaci della Matina si inserisce in un contesto dove il monachesimo bizantino di rito e lingua greca costituiva l’espressione diretta della società locale. Qui, il primo nucleo benedettino si offriva come una sorta di “corpo estraneo”, la cui integrazione passò attraverso una lenta assimilazione che l’uso, ad esempio, della lingua greca per la redazione dei documenti conservati nel suo Archivio ci fa appena intuire[265].

Tuttavia proprio nella valle del Crati, a differenza della Lucania e della Calabria settentrionale in cui la presenza e il ruolo religioso, economico e sociale dei monaci greci era ben attestato, ne registrava una presenza sostanzialmente marginale[266] ove poterono agevolmente inserirsi i monaci benedettini.

Qui, come altrove[267], i benedettini svolsero un ruolo di rilievo non solo nella latinizzazione delle campagne ma anche al loro ripopolamento dopo il primo periodo di aspre lotte per il loro dominio.

Del resto, le fondazioni monastiche si offrivano egualmente come centri irradia tori di spiritualità e cultura, così come di amministrazione e di potere politico sul territorio circostante. S.Maria della Matina fu solo la prima, cui seguirono le abbazie di S. Antonio di Stridula, S.Maria di Camigliano, S.Maria del Corazzo, S. Eufemia, SS.Trinità di Mileto che segnano, tutte, le tappe della penetrazione normanna in territorio Calabro[268].

In Calabria, il monachesimo bizantino, definito dal Laurent come un «rameau priovincial» di quello bizantino[269], e quello latino si inquadrano, infatti, nell’ambito della coesistenza della popolazione di origine greca e latina, laddove la latinizzazione non poteva avvenire ex abrupto in territori dove forte era stata la presenza bizantina e ancora viva e operante attraverso il monachesimo greco.

Del resto, anche il monachesimo latino non può considerarsi come un blocco omogeneo, poiché si declina in varie interpretazioni, quali quella benedettina, la cistercense, la florense, ecc. ognuna con una propria storia e la cui presenza in ciascun monastero si esplica in differenti modi e in diversi periodi[270].

Pur non essendo giunte sino a noi molte testimonianze che ci permettano di avere una idea chiara dell’efficienza e dello stato numerico dei singoli monasteri di rito bizantino per il XV, sappiamo però che numerosi di essi sopravvissero sino a quest’epica e ciò non può che essere attribuito al fatto che la Calabria venne considerata sin dal IX secolo come una terra bilingue, in cui l’elemento greco apparteneva al patrimonio autoctono e sul quale il rito latino e la lingua latina si inserirono grazie al prestigio della nuova dominazione normanna, ma senza casi eclatanti di soffocamento del tessuto connettivo religioso e amministrativo preesistente[271].

La fedeltà dimostrata all’autorità della Chiesa di Roma con lo scisma del 1054 gli aveva pure guadagnato l’appoggio di papi, benché si trovassero, oramai, isolati dai grandi centri di spiritualità e cultura bizantina ad affrontare la sempre maggiore ostilità da parte della corte di Napoli[272].

Lo stesso papa  Alessandro II aveva posto l’abbazia sotto la diretta autorità papale, tanto è vero che essa appare nella parte più antica del Liber censuum Romanae ecclesiae[273] .

Il 18 novembre 1092 papa Urbano II visitò l’abbazia, nel più ampio contesto della visitazione apostolica delle varie marche meridionali e della gestione di delicati equilibri sia diplomatici che religiosi. Sempre in movimento, Urbano II, sin da quel 3 luglio 1089 in cui entrò trionfalmente a Roma, mentre l’antipapa voluto dall’imperatore, Clemente III dovette fuggire a Tivoli, giunse all’abbazia della Matina durante un periodo ricco di importanti e determinanti eventi.

Proseguendo ed attuando la riforma di papa Gregorio VII, presenziò numerosi sinodi a Roma, Amalfi, Benevento e Troia, rinnovando la condanna della simonia e della prassi delle investiture laiche e affermando la necessità del celibato del clero e la propria opposizione all’imperatore Enrico IV. Non appena fece rientro nella penisola, riunì a Melfi (PT) un concilio nel 1090, al quel presero parte ben settanta vescovi: in questa occasione vennero emanati sedici canoni con i quali venne condannata simonia, venne proibita l’investitura laica, si ordinò il celibato ai chierici e altri correlati alla riforma della disciplina monastica. Di lì proseguì passando per Matera e raggiunse Bari, dove consacrò la basilica di San Nicola, riponendovi le reliquie riportate dall’Oriente. In questa occasione si fermò anche all’abbazia della Matina, come testimoniatoci da ben due documenti datati 1092.

Nel primo abbiamo la mera registrazione della sosta:

«Urbanus II, papa, sistit in monasterio s.Mariae de Matina, O.S.B., Sancti Marci dioc.»[274].

 

Più interessante è il secondo, nel quale si fa cenno all’esercizio giurisdizionale esercitato dal pontefice per dirimere una non altrimenti nota questione sorta tra i monaci di Sant’Albino e quelli dell’abbazia di Vendôme:

«Urbanus II. Papa. Anno dominicae incarnationis MXCII, pontif. Anno V. Ind. I, cum esset in provincia Calapriae, apud monasterium S.Mariae, que dicitur de Matina, Credonen. Litem dirimit inter monachos S.Albini et Vindocinen. Ortam. Dat. Tarenti, VIII Kal. decembris»[275].

 

 

Sicuramente anteriore al 1100 è la subordinazione, con tutto il suo patrimonio, del monastero di San Nicola all’abbazia. Il diploma di fondazione dell’abbazia, datato appunto 31 marzo 1065, si legge la concessione «in valle quae Mercuri nuncupatur […] abbatiam Sancti Nicolai de abbate Clemente cum vineis, teris et silvis et omnibus sibi pertinentibus»[276]. La falsità del diploma in questione pone seri dubbi su questa datazione della subordinazione di San Nicola e, tuttavia, un successivo documento del luglio 1100 del duca Ruggero[277], la considera come già avvenuta, il che permette solamente di determinare una data ante quem.

Verso la fine del secolo, però, si hanno notizie della sua decadenza, tanto che, in seguito alle devastazioni portate a Fiore dagli eserciti del re di Sicilia Tancredi Gioacchino da Fiore rifiutò di trasferirvisi a scapito dei monaci ivi residenti. Il re aveva proposto tale accomodamento in considerazione dello stato di grave declino in cui versava l’abbazia della Matina[278].

Il 29 ottobre 1221Santa Maria della Matina diviene un monastero cistercense, dipendente da Sambucina. Si concesse il trasferimento di persone e religiosi dal monastero di Sambucina, come testimonia un atto con il quale l’arcivescovo di Cosenza, Luca e il vescovo di San Marco, Andrea, statuiscono il trasferimento:

«Lucae, archiepiscopo Cusentino, et Andreae, episcopo Sancti Marci, mandat ut monasterium Sambucinum, cist. Ord., situm in loco ruinoso et alias valde inepto, ad monasterium S.Mariae de Matina, Sancti Marci dioc., personis et religiosis penitus destitutum, transferri permetta. Dat. Laterani, IIII kal. Novembris, pontif. N.ri anno sexto»[279].

 

Con il permesso dei vescovi locali competenti, e del papa Onorio, l’abate di Sambucina ottiene il passaggio dell’abbazia ai cistercensi che diverrà effettivo con il consenso dell’imperatore Federico II, ottenuto nel febbraio dell’anno successivo, e la conferma papale, una volta completato il trasferimento, il 3 giugno, come confermato da un altro atto:

«Abati et conventui monasterii S.Mariae de Matina cum omnibus pertinenti set possessioni bus, nec non translationem conventus Sambucinae ad dictum monasterium. S.Mariae de Matina, ab Archiepiscopo Cusentino et Episcopo Sancti Marci, de mandato apostolico, cocessam, in uqam Fridericus imperator consenserat. Dat. Alatri, III nonas iunii, ind. Decima, inc. nis d.mnce MCCXXII, pont. An. sexto»[280].

 

Un ulteriore documento datato 18 dicembre 1223 conferma l’entrata dei cistercensi nel monastero nonché delle sue spettanze (beni, immunità, ecc.): si tratta di un documento di conferma dietro richiesta non ben precisata che, comunque, conferma ulteriormente l’avvenuto passaggio:

«Abbati et conbentui Matinae de Sambucina, Cist. Ord.. “Cum a nobis petitur…Eapropter ecclesias, grancias casalia, possessione set bona, nec non libertates, immunitates et alia iura que monasterium sancte Marie de Matina priusquam Cistercensi sordo institueretur ibidem habebat, sicut ea iuste ac pacifice possidetis, vobis et per vos monasterio vestro auctoritate apostolica conferimus et presentis scripti patrocinio communimus” Dat. Laterani, decimo quinto kal. Ianuarii, Pontif. N.ri anno septimo»[281].

 

Nel maggio dell’anno successivo l’abate Marco chiese ed ottenne dall’imperatore Federico II il rinnovo perpetuo dei privilegi conferiti al monastero della Matina da Roberto il Guiscardo[282].

Il passaggio del monastero all’Ordine cistercense non cancellò la memoria del nome che rimase Matina, benché generalmente associato al monastero di Sambucina utilizzandone la denominazione, come una sorta di patronimico, in espressioni quali de Matina Sambucina o dictum sambucina Matina.

Ritroviamo l’abbazia in un documento del 29 novembre 1251, nel contesto di visite triennali da compiersi al monastero di Fiore nel contesto delle vicende riguardanti  l’espulsione dell’abate Giovanni:

«Casemarii, Sancti Martini[283] et S.Trinitatis abbatibus, cist. Ord., Verulanae et S.Marci et Rossanen. dioc., mandat ut monasterium Florense et alias abbatias eiusdem Ordinis per triennium visitent et reforment. Iohannes enim de Braala monachus, canonice in ipsorum abbatem electus, per quondam nuntium F(rederici), quondam imperatoris, procurantibus quibusdam perversis fratribus eiusdem monasterii, de sua abbatia fuit violenter expulsus. Dat. Perussi, III kal. Dicembri, Pont. an. nono»[284].

 

I primi due secoli di governo cistercense del monastero sembra fossero segnati da un certo ammorbidimento della disciplina monastica, al punto da subire un richiamo nel Capitolo Generale[285].

Con la morte dell’abate Stefano, papa Gregorio XII diede incarico ai vescovi di San Marco, Lodovico[286], e a quello di Crotone di dare il monastero di S.Maria della Matina in commenda al cardinale diacono di S.Maria in Cosmedin, Pietro, noto come il Cardinale di Venezia. Così l’atto del 18 maggio 1410:

«Sancti Marci et Cotronen. Episcopis. – Cum monasterium S.Mariae de Matina, cist. Ord., Sancti Marci, dioc., vac. Per ob. Stephani abbatis, extra R.C. defuncti, Petro, tit. S.Mariae in Cosmedin diac. Card. De Venetiis nuncupato, tradiderit in administrationem, mandat ut dicti monasterii possessionem capient et gubernent, nomine et auctoritate dicti Cardinalis. Dat. Caiete, XV kl Iunii, Pont. Anno quarto

Cum monasterium S.Mariae de Matina»[287].

 

La “commenda” ecclesiastica era un istituto medioevale di antica origine che designava, propriamente, un beneficio ecclesiastico che veniva affidato ad un usufruttuario laico o titolare di altro beneficio, il quale assumeva, contestualmente, un grado ecclesiastico e ne godeva la rendita senza gestire il bene direttamente, ma attraverso un vicario. Questo vuol dire che il commendatario godeva del beneficio senza obbligo d’ufficio. Di fatto, il cardinale di Venezia si avvalse dei vicari per la gestione dell’abbazia e delle sue problematiche, tanto è vero che troviamo altri due documenti di poco successivi in cui si precisano alcuni incarichi.

Nel primo, datato 21 febbraio 1411 e indirizzato a Giovanni di Fillino, decano di Cosenza, Antonio Gaieba, Arcidiacono di San Marco e Ciccho, presbitero della diocesi di Cassano, si chiede di prendere possesso del Monastero di Santa Maria della Matina e indurre all’obbedienza ed al rispetto della propria autorità i monaci e i vassalli dell’abbazia:

«Johanni de Fillino, Decano Cusentin., Antonio de Gaieba, Archidiacono Sancti Marci, ac Ciccho magistri angeli, presbitero Cum monasterium S.Mariae de Matina, cist. Ord., Sancti Marci dioc., vac. Per ob. Stephani, ultimi abbatis, commendatum fuerit Petro, S.Mariae cosmedin Diac. Card. De Venetiis vulgariter nuncupato, mandat ut suo nomine possessionem capiant et monachos ac vassallos ad debitam eidem oboedientiam et reverentiam inducant. Dat. Caiete, VIIII kal. Martii, anno quinto

Cum monasterium S.Mariae de Matina»[288].

 

Il secondo documento, datato 3 giugno successivo, si fa cenno alla necessità di difendere la commenda del card. di Venezia:

«Rossanen. et Cusentin. Archiepiscopis ac Santi Marci et Cassanen. et Bisinaianen. Episcopi set eorum Vicariis in spirituali bus et Capitulis mandat ut defendant Petrum, tit. S.Mariae in Cosmedin Card. Diac. In possessione monasterii S.Mariae de Matina, cui commendatum est, per ob. B.m. Stephani abbatis, extra R.C. defunti. Dat. Caiete, III nonas Junii, Pont. Anno quinto.

Cum monasterium S.Mariae de Matina»[289].

 

Non si specifica il motivo della necessità di difesa della commenda: può trattarsi di un contenzioso locale o di alcuni dei diritti connaturati al beneficio. Non sono purtroppo stati ritrovati altri documenti in grado di suffragare alcuna ipotesi: rimane, tuttavia, il fatto, che vi fosse una tale necessità e che il cardinale titolare abbia affidato ai propri vicari, indirizzari del documento, un tale incarico.

Quanto avvenuto al monastero di S.Maria della Matina rientra nell’uso invalso di affidare ad un vescovo il governo di un monastero vacante (o anche di un’altra diocesi egualmente vacante) ed è già ben testimoniato dalla fine del VI secolo[290].

Si trattava di un istituto caratteristico dell’epoca moderna, benché non sempre deleterio per le comunità affidate tanto che numerosi sono pure gli esempi di rinascita delle comunità[291]. Non fu questo il caso dell’abbazia della Matina.

Si aprì così un lungo periodo di commenda che, passando da un beneficiario ad un altro, pregiudicò le attività dell’abbazia, oramai priva della libertà d’uso delle proprie entrate e incapace di avere voce in capitolo sulle decisioni che la riguardavano.

La morte dell’abate Antonio, segna ancora la possibilità di intervento del Cardinal di Venezia:

«Episcopo Sancti Marci. – Petro, tit. S.Mariae in dominica diac. Card., fuit provi sum a Gregorio XII de monasterio S.Mariae de Matina, cist. Ord., S. Marci dioc., per ob. Quondam Stephani abbatis; postea, per ob. Antonii abbatis, fuit provisum Gaspari, filio Nicolai de Brancaleonibus de Monteleone nato, tunc clerico Reatin; nunc, si vacat, provideat de eo eidem Petro Cardinali. Dat. Romae apud Sancta mariammaiorem, octavo Idus octobris, anno Quarto.

Romani pontificis providentia»[292].

 

Il documento è datato 8 ottobre 1421. Solo il 23 agosto 1424, vedremo succedersi nella commenda, Gaspare Colonna a seguito della morte del Cardinal di Venezia:

«Gaspari de Columna commendatur monasterium S.Mariae de Matina, O.S.B. (sic.), S. Marci dioc., vac. Per ob. Petri, S.Mariae in dominica diac., Card., comendatarii. Dat. Frascati, Tusculan. Dioc., X kl Septembris anno Septimo»[293].

 

Neanche un anno e mezzo dopo la commenda del monastero passa a Lorenzo Giovanni Di Capranica:

«Laurentio Johannis de Capranica, de Comitibus Anguillarae, providetur de monasterio S.Mariae de Matina, O.S.B. (sic.), Sancti Marci dioc., vac. Per cessionem Gasparis de Columna commendatarii. Dat. Rome, apud Sanctapostolos, III Id. Januarii Anno Nono»[294].

 

Ridotta in pessime condizioni, S.Maria della Matina per un breve periodo perse la dignità abbaziale e viene unita al monastero certosino di San Nicola di Chiaromonte nella diocesi di Anglona:

«Cum […] mandavit monasterium S.Mariae de Matina, olim Cist. Ord., S.Marci dioc., abbatiali dignitate suppressa, domui S.Nicolai de Claromonte, Cartus Ord., Anglonen. Dioc., incorporati, et quia dictum monasterium pene collapsum existit, rogat Christifideles ut, ad reficiendas fabricas eiusdem, aliquam elemosinam largiantur; cuilibet autem eorum qui unam cella, suis sumptibus et expensis construxerit seu construe fecerit aut de bonis sibi collatis pro reparation dicti monasterii tantum solverit quantum pro constructione unius cellae sufficerit, concedit facultatem sibi eligendi confessarium idoneum, qui, eius confessione audita, ab omnibus peccatis suis absolvere et plenariam inddulgentiam concedere valeat. Dat. Bononiae, Anno Inc.nis d.mnce MCCCCXXXVII, Decimoctavo kl Ianuarii, Anno septimo

Ecclesiarum et monasteriorum»[295].

 

Non sembra che questo atto rientri nel più vasto piano di riforma degli ordini monastici avviato sotto questo pontefice[296], né nel contesto dei delicati equilibri di alleanze e successi ottenuti dal punto di vista diplomatico, anche in seno alla stessa Chiesa cattolica, come l’unione tra la chiesa di Roma e le chiese Orientali[297]). Più semplicemente, sembra che la decisione rispondesse a istanze locali la cui reale natura e portata non ci è dato approfondire, ma per la brevità del periodo di unione, si stima non essere poi così stringenti, se dopo la morte del pontefice, si rimisero le carte in tavola per giungere alla restituzione dell’abbazia ai Certosini.

Di certo, quasi contestualmente, il vescovo di Bisignano accorda ulteriori benefici all’abate di San Nicola di Chiaromonte, come attesta questo documento datato 21 gennaio 1438:

«Antonio, Episcopo Bisignanen., mandat ut Priori et Conventui Fratrum domus S. Nicolai de Claromonte, Cartus. Ord., confirmet aliqua bona Mathaei de Malvito nuncupata, in territorio Castrivillari, Cassanen. dioc., et permutationem alicuius terrae cum domo fratrum Hospi. S.Jo. Jerosol. Nec non iura feudalia in castris Francavillae et Biganelli, olim ad monasterium S.Mariae de Matena, Cist. Ord., Sancti Marci dioc., quod ad dictam domum S.Nicolai unire et incorporare mandavit. Dat. Bononie, Anno Inc.nis d.mnce MCCCCXXXVIII, Duodecismo kl. Februarii, Anno Septimo.

Ad ea que monasteriorum»[298].

 

Nel documento si elencano una serie di pertinenze e diritti, compresi quelli precedentemente accordati al monastero di Santa Maria della Matina[299].

Voluta da papa Eugenio IV, l’unione si mantenne infatti dal 15 dicembre 1437 sino al 3 novembre 1447, quando, il nuovo papa accordò la restituzione del monastero ai Cistercensi. Il vescovo di Bisignano, allora residente nella Curia, accolse, infatti,  la richiesta di Giovanni Antonio, monaco del monastero di san Sebastiano fuori le mura di Roma, dell’Ordine dei Cistercensi nonché della Comunità e dei cittadini di San Marco, di scindere l’unione con il monastero di San Nicola di Chiaromonte:

«Episcopo Bisignanen., in Romana Curia residenti. Ad petitionem Iohannis Antonii, monachi monasterii S.Sebastiani extra muros Urbis, Cisterc. Ord., et Communitatis ac Civium Sancti Marci, rescinditur unio monasterii S.Mariae de Matina, Cist. Ord., S.Marci dioc., facta Carthusiae S.Nicolai de Claromonte, anglonen. Dioc., per b.m. Eugenium Papam et restituitur Ordini cistercensi. Dat. Rome, apud Sanctumpetrum, anno Incarn. Is d.mnce MCCCCXLVII, Tertio Nonas Novembris, Anno primo.

Romani pontificis»[300].

 

I commendatari che si succedevano incessantemente al titolo dell’abbazia non fecero che contribuire alla sua decadenza, limitandosi a sfruttarne le rendite, compresa una residenza estiva in località Conicella[301].

Un documento del 17 novembre dello stesso anno testimonia, tuttavia, l’attività dell’abbazia con la concessione di fondazione di un cenobio di frati dell’Ordine dei Predicatori:

«Abbati monasterii S.Mariae de Matina, Sancti Marci dioc. Datur facultas fundansi coenobium pro fratribus Ord. Predicatorum de Sanctoseverino, Comitis Teicaricen. Dat. Rome, apud sanctumpetrum, Anno Inc. nis d.mnce MCCCCXLVII, quintodecimo kl. Dicembri, Anno primo.

Sincere devotionis affectus»[302].

 

Si ha poi notizia dell’accoglimento della richiesta di tale Giacomo di Spina, presbitero della diocesi di San Marco, di rivestire l’abito monastico presso il nostro monastero concessagli dall’arcivescovo di Cosenza il 6 giugno 1461:

«Archiepiscopo Cusentino. Pro Jacobo de Spina, presbitero Sancti Marci dioc., licentia suscipiendi habitum monasticum in monasterium S.Mariae de Matina, cist. Ord., S.Marci dioc. Dat.Rome apud Sanctumpetrum Anno Inc.nis d.mnce MCCCCLXI, Ocatvo Idus Iunii, anno Tertio.

Cupientibus vitam ducere regularem»[303].

 

Nonostante gli avvicendamenti, l’abate dell’abbazia mantenne comunque una posizione di prestigio e di potere, potendo contare sulla persistenza del titolo baronale  di S. Giacomo degli Schiavoni e la giurisdizione sull’annesso casale, allora abitato da un nucleo di albanesi che erano venuti in Calabria al seguito di Giorgio Castriota Scanderberg nel 1459, a sostegno di Ferdinando I, re di Napoli e figlio del suo protettore Alfonso d'Aragona, nella lotta contro Giovanni d'Angiò[304]

Varie le notizie sull’attività, soprattutto nel caso di contenziosi, degli abati del monastero di S.Maria della Matina. Un documento del 6 gennaio 1463 testimonia la nuova nomina dell’abate Giacomo de la Syma, il quale, appena otto anni prima era stato commendatario dell’abbazia della Sambucina[305].

Il successivo abate, Giovanni, è ricordato nei documenti per il contenzioso con il sopra ricordato Giacomo di Spina, già presbitero della diocesi di San Marco. In un documento del 31 maggio 1471, si registra l’intervento del principe di Bisignano, Luca di Sanseverino nel quale si chiede l’esecuzione di due non altrimenti specificate sentenze e, tuttavia, si fa anche richiesta della concessione di mantenere il di Spina all’interno del monastero:

«Lucam de Sanctoseverino, Principem Bisignani, rogat ut executioni mandet duas sententias in causa inter Iohannem Arnonum, abbatem monasterii S.Mariae de Matina, cisterc. Ord., Sancti Marci dioc., et Jacobum de Spina in eodem monasterio intrusum et dictum Jacobum in pacifica possessione dicti monasterii menuteneat. Dat. Rome, apud S.Petrum etc., die ultima maii 1471, anno septimo»[306].

 

La vicenda non dovette terminare con l’intervento del principe di Sanseverino, così come non vi avevano posto fine le due sentenze di cui questi chiedeva l’esecuzione. Il 26 dicembre successivo si registra l’intervento del vescovo di San Marco affinché l’abate Giovanni entri in possesso del suddetto monastero, dopo che Giacomo di Spina fosse stato allontanato dai beni che ivi occupava indebitamente:

«Episcopo Sancti Marci mandat ut Iohannem Arnorum, abbatem monasterii S.Mariae de Matina, cisterc. Ord., suae dioc., inducat in corporalem possessionem dicti monasterii, amoto inde Jacobo de Spina, qui bona eiusdem monasterii tenet indebite occupata. Dat. Rome, apud Sanctumpetrum, die XXVI dicembri 1471, Pont. Anno primo.

Fide digna nuper relatione percepimus»[307].

 

Un altro documento recante la medesima data, ci racconta del successivo intervento del principe di Bisignano che, questa volta, chiede, anch’egli l’allontanamento del di Spina:

«N.V. Lucae (de Sanctoseverino), Principi Bisiniani. Rogat ut amoveat Jacobum de Spina, qui bona monasterii S.Mariae de Matina, Cisterc. Ord., sancti Marci dioc., occupaverat et Johannem Arnorum, abbatem dicti monasterii, defendat. Dat. Rome, apud Sanctumpetrum die XXVI dicembri 1471, Pont. Anno primo.

Fidedigna relatione»[308].

 

L’abate Giovanni riuscirà dunque a recuperare quanto indebitamente goduto dal di spina e, a distanza di due anni, lo vediamo accordare, viceversa, un beneficio ad un altro chierico, Giacomo Garzez, secondo quanto affermato in un documento datato 2 settembre 1473:

«Iohanni, abbati monasterii S.Mariae de Matina, cisterc. Ord., sancti Marci dioc…Ecclesiam S.Angeli de Fringillo, Sanctae Severinae dioc., quae membrum sue grancia est monasterii S.Mariae de Matina, eiusdem Ord., Sancti Marci dioc., , cui dictus Johannes praeest, separat a dicto monasterio et de ea providet Iacobo Garzez, clerico Neapolitan., reservata pensione quinquaginta fl. Auri super fructibus et redditi bus eiusdem ecclesiae pro eodem Iohanne. Dat. tibure, anno Inc.nis d.mnce MCCCCLXXIII, Quarto nonas septembris, Anno tertio – Personam tuam.

S.m.: Archiepiscopo Salernitan. Et Militen. Ac Sancti Marci episcopis: “Hodie dilecto filio Johanni”»[309].

 

La cessione viene, inoltre, confermata da un successivo atto datato 21 aprile dell’anno successivo:

«Die XX eiusd. Menisis Ap.lis, una bulla pro Rev.do p.re d.no Johanne, abbate mon.rii sancte Marie de Matina, cisterc. Ord., Sancti Marci dioc., super pensione annua Quinquaginta fl. Auri de camera eidem assignata super eccl.a sive mon.rio Sancti Angeli de Frigillo, Cisterc. Ord., Sancte Severine dioc., occasione certe cessionis facte de dicto mon.rio per bull. Dat. Tome, quarto non. Septembris Anno Tertio»[310].

 

Gli anni successivi vedono susseguirsi abati e commendatari, senza particolari eventi: i documenti registrano semmai rendite e censi. Di particolare interesse è, invece, un documento datato 4 agosto 1475 in cui si registra la separazione del monastero di Santa Maria della Matina da quello di Sambucina, la cui unione risaliva all’epoca di Federico II:

«Vicario Archiepiscopi Cusentin. In spirituali bus generali. Ad petitionem Ferdinandi, Regis siciliae, separat monasterium S. Mariae de Sambucina, Cisterc. Ord., Bisignanen. Dioc., a monasterio S.Mariae de Matina, eiusd. Ord., Sancti Marci dioc., cui auctoritate apostolica unitum fuit et cuius est abbas Johannrs. Monasterium S.Mariae de Sambucina commendat Jacobo de Arico, Canonico Cusentin., in decimo nono aetatis suae anno costituito, et monasterio S.Mariae de Matina praefatum Johannem praeficit in abbatem. Dat. Rome, apud Sanctumpetrum, anno Inc.nis d.mnce MCCCCLXXV, pridie Non. Augusti, anno Quarto.

Apostolice Sedis pudentia»[311].

 

Dietro richiesta del re di Sicilia, Ferdinando, l’arcivescovo vicario di Cosenza  rimette all’abate Giovanni il solo monastero di S.Maria della Matina, affidando quello di S.Maria di Sambucina a Iacopo de Arico, lo stesso che in un atto del 29 novembre 1481 sarà indicato come commendatario di S.Maria della Matina:

«Ven. d.nus Iacobus de Arico, canon. Cusentin., commendatarium monasterii b.e. Marie de Matina, Cistercen. Ord., Sancti Marci dioc., pro totali et integra solutione communis servitii dicti monasterii….fl. auri de camera Triginta. Dat. Rome, in Camera Apostolica, apud S.petrum, anno MCCCCLXXXI, die XXVIIII mensis novembris, Pont…anno undecimo»[312].

 

Non sappiamo se Iacopo de Arico fosse commendatario di entrambi i monasteri, ma qualche anno dopo una serie di documenti rivelano che i due monasteri vennero affidati in commenda al medesimo beneficiario, pur avvicendandosi i commendatari.

In un documento datato 26 luglio 1487 si indica come commendatario di S.Maria della Matina tale Ferdinando Caracciolo, clerico napoletano:

«Ferdinando Caracciolo, clerico Neapolitano, coomendatur monasterium, abbatia noncupata, S.Mariae de Matina, Cist. Ord., S.Marci dioc., vac. Per liberam resignationem Iohanni, abbatis. Dat. Rome, apud S.Petrum an MCCCCXXXVII, III Kl. Iulii, an. III»[313].

 

In un successivo documento del 26 luglio 1487 si fa cenno all’unione dei due monasteri:

«Die XXVI Iulii 1487 ven.lis vir d.nus Baptista de Lagni de neapoli, decretorum doctor, procurator constitutus ad.no Iohanne, abbate mon.rii b.te marie de Matina, Cist. Ord., Sanctimarci dioc., cui mon.rium esset eiusdem b.te marie sambucine, dicti ord., Bisignanen. dioc., perpetuo canonice est annexum, ut patet ex instrumento Neapoli subscripto manu Loysii gramati deneapoli, aplca autortate notarii […] sponte consensit resignationi regiminis et administrationis dicti monasterii et predicte sambucine, de quo mandatur provideri Ferdinando Caracciolo, cl.o neapolitan., per bull. Dat rome, III Kal. Iulii, an. III»[314].

 

Unione ribadita anche in un altro documento del 2 aprile 1494, ove si registra la cessione della commenda di entrambi i monasteri e il suo affido al clerico napoletano Nicola Caracciolo[315]:

«Vicario Archiepiscopi Neapolitan. In spirituali bus generali mandat ut Nicolao Carazulo, clerico Neapolitan., in undecimo aetatis suae anno costituto, commendet monasteria S.Mariae de Matina et s.Mariae de Sambucina, canonice unita, cisterc. Ord., Sancti Marci et Bisignanen. Dioc., vac. Per cessionem, factam per Marinum Carazolum, procuratorem suum, a Ferdinando Carazulo, qui ea ex concessione et dispensatione apostolica habebat in commendam. Dat. Rome, apud Sanctumpetrum Anno Inc.nis d.mnce MCCCCLXXXXIIII, Quarto Non. Aprilis pont. n.ri Anno secundo.

Romani pontificis»[316].

 

Il successivo commendatario fu Lilio Caracciolo, come attestato da un documento datato 18 dicembre 1500:

«Lilio Carazolo, clerico Neapolitan., providetur de monasterio S.Mariae de Matina et de monasterio S.Mariae de Sambucina, sibi invicem unitis, coist. Ord., sancti Marci et bisignanen. dioc. Dat. Rome, apud Sanctumpetrum, anno Inc.nis d.mnce MD, XV Kl. Ianuarii, anno IX.

Romani pontificis»[317].

 

Commenda affidata al Caracciolo da Alessandro VI e confermata per entrambi i monasteri il 29 giugno del 1504:

«Ausculan. Et Liparen. Episcopis ac Iohanni Gagliardo, canonico ecclesiae Neapolitan. – Lilio Carazolo, clerico Neapolitan., in tertiodecimo aetatis suae costituito, fuerat provi sum ab Alexandro pp.VI de monasteriis S.Mariae de Matina et S.Mariae de Sambucina, invicem unitis, cist. Ord., S.Marci et Bisignanen. dioc., sub dat. XV Kal. Ianuarii, ont. Sui anno XI. Haec provisio denuo confirmatur. Dat. Rome, apud Sanctumpetrum, an. In.nis d.mnce MDIII, III Kal. Iulii, an. 1.

Romani pontificis»[318].

 

Continuarono a succedersi i commendatari che univano il beneficio di S.Maria della Matina a quello della Sambucina: il 7 marzo del 1505 subentra Fabio Santori:

«Fabio Sanctori, Datario, commendatur monasterium S.Mariae de Matina et S.Mariae de Sambucina, cist. Ord., S.Marci et Bisignan. dioc.»[319];

 

quindi, nello stesso anno, Lelio Caracciolo è indicato come commendatario di S.Maria della Matina:

«Die VIII aprilis, D.nus Marinus CAraciolus, nomine Lelii Caracioli, obtulit pro communi servitio mon.ri B. Mariae de Matina, cist. Ord., S.Marci dioc., ratione commende sibi de dicto mon.rio, per bull. D.ni Iulii sub pridie Non. Martii an.III, auctoritate aplca facta, fl. Auri de ca. 60, ad quos dictum mon.rium in libro camere reperitur taxatum, et quinque minuta servitia consueta

Dicta die bulle prefati mon.rii eidem Marino date sunt, quia solvit omnia iura»[320].

 

Una serie di documenti ci narrano di una strana successione del beneficio tra Lelio e il fratello Carlo: dapprima affidata a Lelio, essa viene ceduta al fratello Carlo e da questo, nuovamente ceduta a Lelio per poi essere, infine, da questi ceduta al fratello Carlo.

In un documento datato 24 marzo 1558, si registra l’affido della commmenda a Lelio, per cessione di Carlo:

«Laelio Carazolo, scolari Neapolitan., commendatur monasterium S.Mariae della Matina Sabocinae, Cist. Ord., S.Marci dioc., vac. per cessionem Caroli Carazoli, cui commendatum fuit per ob. Tiberi Carazoli. Dat. Rome, apud S.petrum, an. Inc.nis d.mnce MDLVII, IX Kal. Aprilis, pont.us n.ri an.III.

Romani pontificis»[321].

 

In un altro documento, datato 20 dicembre 1561, si richiede la restituzione dei beni indebitamente occupati del monastero della Matina, il cui titolare della commenda è indicato proprio Carlo Caracciolo, per cessione del fratello Lelio:

«Mandat, sub poena excommunicationis, ut restituantur bona indebita occupata monasterii S:Mariae de Matina, cist. Ord., S. Marci dioc., cuius est commendatarius Carolus Caracciolo, per cessionem Laeli, fratris eius»[322].

 

Purtroppo non vi è presente alcuna intestazione, né altri elementi per identificare l’indirizzario (o gli indirizzari) ti tale provvedimento. Interessante è la minaccia della scomunica quale pena immediatamente comminata per la non esecuzione della richiesta.

Sappiamo che Carlo Caracciolo manterrà la commenda almeno sino al 15 marzo del 1573, data dell’ultimo documento in cui viene nominato come commendatario. Lo ritroviamo soggetto indirizzario, infatti, di vari documenti relativi alla gestione dei beni del monastero di S.Maria della Matina.

Le condizioni del monastero in questo periodo non sono delle migliori. Di fatto, nel 1561 il procuratore generale dell’Ordine e visitatore dei suoi monasteri, Nicolò Boucherat, documentava lo stato di degrado in cui versava l’abbazia stessa di Santa Maria della Matina: gli edifici regolari erano semidistrutti, fatta eccezione per il capitolo, ove era stato eretto un altare per la celebrazione della messa, mentre un altro edificio con camere da letto e mura interne ed esterne integre era abitato dal fattore dell’abate commendatario e da due sacerdoti secolari[323].

In un documento datato 30 gennaio 1568, a Carlo Caracciolo viene data licenza di concedere in enfiteusi perpetua un terreno:

«Episcopo S.Marci sive eius Vicario generali et primam vel aliam dignitatem in ecclesia S.Marci obtinenti. Carolo Caracciolo, abbati seu commendatario abbatiae S.Mariae de Matina, cist. Ord., S.Marci dioc., datur licentia concedendi in emphiteusi perpetuam quodam petium terrae, situm in loco ubi dicitur “de petra biancha”, ad dictam abbatiam pertinens, roberto Valentino, dictae civ. S.Marci. Dat. Rome, in camera aplca, an. A Nativ. D.mi 1568, Ind. XI, die vero XXX Ianuarii, an.3°»[324].

 

Strumento amministrativo utilizzato dalla Chiesa romana sin dal VII-VIII secolo per regolarizzare cessioni e/o concessioni di fondi alla nobiltà locale e consolidare la stabilità politica dell’area interessata, l’enfiteusi prevedeva la cessione al titolare degli stessi diritti del proprietario sul fondo, dietro versamento di un canone periodico e di migliorarlo[325]. Ma questo fu solo uno degli strumenti legali attraverso i quali il commendatario diede in gestione più terreni pertinenti all’abbazia. Più spesso, si ricorse a contratti di affitto, di cui è rimasta traccia negli archivi che hanno registrato la concessione della facoltà di procedere. Un terreno fu concesso in affitto con documento datato 1 giugno 1568, dietro pagamento di un canone di 15 carlini:

«Carolo Caracciolo, commendatario abbatiae S.Mariae de Matina, in territorio S. Marci, datur licentia locandi terrana, in loco ubi dicitur “Sotto lo Scavolino”, pro anno censu 15 carlenorum. Dat. ut s.»[326].

 

Un altro terreno (o un insieme di terreni?) fu concesso in affitto a tali Giovanni Battista e Giovanni Vincenzo Decorato, cittadini cosentini, dietro il pagamento di 1000 scudi e 100 balle di grano, il 15 marzo 1571:

«Episcopo Bisignanen. sive eius Vicario generali. Confirmatio affictus honorum monasterium seu abbatiarum S.Mariae de Matina; S.Marci dioc., et S.Mariae de Savocina, Bisignanen. dioc., et S.Angeli de Frigillo, s.Severino dioc., facti a Carolo Caracciolo, commendatario, Io. Baptiste et Io. Vincentio Decorato, civibus Cusentin., prop praetio 1000 scut. Et 100 tumulorum grani, prout in publico instrumento desuper confecto. Dat. rome, apud S.Petrum, sub annulo Pisc., die XV Martii MDLXXI, Pont.us n.ri an.VI.

Exponi nobis»[327].

 

Il documento chiarisce che i beni in questione non appartenevano solamente all’abbazia di S.Maria della Matina, ma il contratto di affitto interessa anche i beni di S.Maria di Sambucina e S.Angelo di Frigillo, di cui il Caracciolo è indicato come commendatario. Il 15 marzo del 1573 sappiamo che il Caraccio era ancora il commendatario dell’abbazia della Matina, ed aveva ottenuto la facoltà di alienarne alcuni beni in enfiteusi:

«Episcopo S.Marci et eius Vicario generali. Carolo Carazolo, abbati seu commendatario abbatiae S.Mariae de MAtina, s.Marci dioc., proviso a Paulo III sub. Dat. Rome, apud S.Petrum, an. MDXXXIV, pont. us sui an. I, datur facultas concedendi in emphiteusi perpetuam nonnulla bona, ad dictam abbiatiam pertinentia. Dat. Rome, apud S.Petrum, an. MDLXXII, Idus Martii, an. I»[328].

 

Alcune schede notarili conservate presso l’Archivio di Stato di Cosenza, indicano il reverendo Ottavio Belmusto come Abate di tre abbazie: S.Maria della Matina, S.Maria Sambucina e S.Angelo di Frigillo[329].

Il 13 aprile 1583, tale Ottavio Belmusto, è indicato come commendatario del solo monastero di S.Maria della Matina, ma non abbiamo altre tracce che ci indichino l’avvenuta successione nella commenda:

«Octavio Balbusto, pbro Neapolitan., commendatario monasteri S.Mariae de Matina, cost. Ord., S. Marci dioc., datur licentia incumbendi studiim legum per septennium. Dat. ut s.

Exponi nobis»[330];

 

sappiamo solamente che Carlo Caracciolo doveva essere ancora in vita, quando la commenda passò al Belmusto, tanto che quegli viene nominato in un successivo documento datato 19 febbraio 1604, in occasione del trasferimento a suo nome di una pensione di 200 ducati derivante dai beni dell’abbazia:

«Pro Fabritio Caracciolo facultas transferendi annuam pensionem 200 duc., super fructibus monasterii B.Mariae de Matina, et Sambucinae, Cist. Ord. S.Marci dioc., favore Caroli Caracciolo, pbri Neapolitan. Dat. rome, apud S.Petrum, sub. Annulo Pisc., die 19 Februarii 1604, an. XIII.

Sincere fidei»[331].

 

Due successivi documenti[332] ci illustrano l’accoglimento della richiesta avanzata dal Belmusto, ora insignito della dignità vescovile, di separare la mensa claustrale di S.Maria della Matina da quella del commendatario:

«Episcopo S.Marci mandat ut ab Octavio Belmusto, episcopo Alerien. Et commendatario monasterii seu abbatiae S.Mariae de Matina, Cist. Ord., S.Marci dioc., obtineat separationem mensae claustralia a mensa commendatarii. Dat. Rome, apud S.Petrum, an. D.ni MDCV, Non Ianuarii, Pont. us n.ri an. XIII.

Exponi nobis»[333];

 

«Episcopo S.Marci mandat ut executioni mandet litteras Clementis VIII, dat. die V Ianuarii 1605, quae inseruntur, super separazione mensis claustralis a mensa commendatarii monasterii seu abbatiae S.Mariae de Matina, Cist. Ord., S.Marci dioc., Dat. Romem apud S.Marcum, sub annulo Pisc., die 22 Augusti 1605, an.I – Als fe.re Clemense PP.VIII»[334].

 

Peraltro, anche il Balbusto procedette, come i suoi predecessori, con la concessione di beni, fondi e terreni. L’ultimo documento utile nell’arco di tempo esaminato dal presente Regesto è la concessione della facoltà di alienare in enfiteusi alcuni terreni in località “Campicello e Prato” nel territorio di pertinenza della diocesi di S.Marco, in data 5 gennaio 1608:

«Decano ecclesiae S.Marci et Vicario generali episcopi S.Marci. Octavio (Belmusto), episcopo Alerien., commendatario monasterii S:Mariae de Matina, Cist. Ord., S.Marci dioc., datur facultas concedendi in emphiteusim perpetuam quasdam terras, in territorio S.Marci et loco dicto “Campicello et Prato” positas, iuxta domos N.V. Principi Bisignani, pro anno censu, Andreae Ginzage (?), laico dictae dioc. Dat. rome, apud S.Paetrum, an. MDCVII, Non. Ianuarii, an.III»[335].

 

Mentre la liquidazione delle terre dell’abbazia procedeva inesorabile, la soppressione si faceva sempre più vicina. Nel 1633 l’abbazia di Santa Maria della Matina aderì alla congregazione Cistercense calabro-lucana, ma appena vent’anni dopo, il monastero venne soppresso da papa Innocenzo X, nonostante la commenda restasse vigente fino all’eversione della feudalità avvenuta nel 1809[336]. In quell’occasione, l’abbazia e i suoi beni divennero proprietà statale. L’abbazia e gli antistanti terreni vennero poi donati al generale Luigi Valentoni, personaggio di rilievo di una famiglia di San Marco,  che vi creò un’azienda agricola: attualmente la proprietà è rimasta in capo ai suoi discendenti[337].

 

 

Scalea

 

Il territorio del vicariato di Scalea, precedentemente appartenuto alla diocesi di Cassano allo Ionio venne aggregato alla diocesi di San Marco solo nel 1979, in conseguenza delle variazioni territoriali sancite dalla bolla Quo aptius di papa Giovanni Paolo II, cui risale l’assunzione dell’attuale nome della diocesi, ovvero, San Marco argentano-Scalea.

Insediamento di origine preistorica, Scalea divenne un centro religioso di rilievo nel XIII secolo, in seguito all’erezione di un convento francescano ad opera di Pietro Cathin. Sottoposta a continui attacchi saraceni Scalea si sviluppò verso l’entroterra, con la costruzione di una rocca fortificata al tempo dei normanni, ingrandita da Ruggero d’Altavilla verso il 1060 circa[338].

Il primo documento riguardante Scalea emerso dal presente spoglio risale al 1130-1137. Il documento riguarda l’esonero dalla giurisdizione dell’arcivescovo di Salerno concesso all’abate Simenone del Monastero della Santissima Trinità Cavense (Cava de’ Tirreni) ed in esso si enumerano, tra i cui diritti e i beni si nomina il monastero di san Pietro e la Chiesa di S.Maria con l’annesso ospedale presso Scalea:

«Symeoni abbati et conventui monasterii S.Trinitatis Cavensis concedit libertatem a iurisdictione Arhciepiscopi Salernitani et confirmat omnia iura et possessiones, inter quas enumerantur possesiones positae in Calabria, scil. “apud Scaleam monasterium S.Petri et ecclesia S.Mariae cum hospitali, S.Nicolai apud oppi dum Mercurii, S.Mariae de Rota, S.Petri et S.Benedicti de Ollano, S.Pauli et S.Petri de Renda, apud oppi dum S.Mauri ecclesia sanctorum Cosmae et Damiani»[339].

 

La maggior parte dei documenti riguardano cittadini oriundi di Scalea, senza che la loro azione abbia avuto apparente influenza ulla città o sulla sua vita religiosa. Si ricordano, ad esempio la citazione di Ademaro Romano di Scalea, viceammiraglio del Regno di Sicilia, in merito alla fondazione di una cappella dedicata a Giovanni Battista in un documento datato 11 gennaio 1330:

«Cappella, fundanda sub titulo D.Iohannis Baptistae, unita ecclesiae S.Nicolai, in oppido Scalea, Cassanen. dioc., a N.V. Ademario  Romano, viceamirato regni Siciliae, cui et haeredibus eius ius patronatus reservatur. Dat. Avinione, III Idus ianuarii, anno quartodecimo»[340].

 

Ademaro ci è noto per essere stato incaricato da Carlo II d’angiò di reclutare degli uomini per prestare servizio sulle sue galere, il 18 febbraio 1325[341].

Ritroviamo poi Matteo di Scalea, divenuto vescovo di Lavello il13 novembre 1364 e l’anno dopo, trasferito al seggio vescovile di Squillace il 17 dicembre:

«Mathaeus de Scalea, Ord. Fr. S.Mariae de Monte Carmelo, fit episcopus Levellen. Per ob. Marcottini. Dat. avinione Idus novembris Anno Tercio.

Ad universalis ecclesie regimen.»[342];

 

«Mathaeus de Scalea, episcopus Lavellen., ad ecclesiam Squillacen., per ob. Johannis de Rocca vac., transfertur. Dat. Rome, Sanctum Petrum, XVII kl Januarii Anno octavo.

Apostolatus Officium»[343].

 

Reincontriamo il vescovo Matteo in un altro documento, datato 4 aprile 1372, che sembrerebbe testimoniarci la benevolenza accordatagli dalla regina di Sicilia:

«Reginam Siciliae rogat ut praecipiat officialibus suis ne impediant Matthaeum, episcopum Squillacen., in jurisdictione tenimento rum, in quibus aliqui habitare volunt, vide licet de Muffa, de Arulea, de Scito et de S.Johanne theristi, Squillacen. Dioc., ad suam mensam spectantium, et Ludovico de Scalea, fratri dicti episcopi, de aliquo beneficio provideat. Dat. Avinione II non. Aprilis Anno secundo»[344].

 

Abbiamo poi notizia di una indulgenza di un anno e quaranta giorni concessa per la visita della chiesa di S.Nicola di Platea a Scalea nel giorno della festività del medesimo santo, datato 19 agosto 1345 che ci testimonia il prestigio della chiesa stessa:

«Indulgentia unius anni et unius quadragenae pro visitanti bus ecclesiam S.Nicolai de Platea, castri de Scalea, Cassanen. dioc., in festivitatibus eiusdem Sancti. Dat. Avinione XIIII kal. Septembris, Anno Quarto.

Splendor paterne glorie»[345].

 

Degni di nota sono infine alcuni documenti riguardanti un contenzioso tra un laico originario di Scalea, Francesco Bistonto e Bertrando de Boysio il quale aveva indebitamente occupato e tratto vantaggio da beni mobili ed immobili, situati nelle diocesi di Nicastro e Cosenza, di pertinenza del primo, come una prima sentenza aveva già stabilito. I due docuemnti[346], datati rispettivamente 9 marzo 1374 e 20 giugno 1377, mostrano come la questione si trascinasse tra gli eredi di entrambi e come i successivi interventi del vescovo Martiranoa favore dello scaleota si fossero concretizzati in richiami, nell’istituzione di un ulteriore processo sino alla comminazione della scomunica e dell’interdetto, offrendoci testimonianza della prassi dell’azione giurisdizionale episcopale dell’epoca:

«Mandatum Abbati Monasterii S.Mariae de Curatio, Marturanen. Dioc., quatenus in causa Rainutii de Scalea, et Margheritae ac Ipolitae de Scalea, nato rum Francisci, laici in dioc., Neocastren. Commorantis ex parte una, Manuelis Chambaudi Praeceptori domus Hospitalis S.Johan. Jerosol. S.euphemiae, dicte dioc., parte ex altera, in qua quidem causa memoratus Franciscus super nonnulla bonis mobilius et immobilius ad ipèsum Franciscum pertinenti bus, diffinitivam sententiam reportaverat et apostolicas ad episcopum Marturanen. Et duo salio eius in hac parte collegas litteras impetraverat, idemque episcopus cntra preafactum Manuelem nonnullos processus fecit in tali bus fieri consuetos, monens inter caetera dictum Manuelem ut infra certum terminum bona praedicta eidem Francisco restitueret, alioquin in eum excommunicationis sententiam promulgabat, et deinde quia idem Manuel huoiusmodi monitioni parere recusaverat, praefatus Episcopus eudem Manuelem mandavit et fecit excommunicatum publice nuntiari, ac subsequenter cum ideam Manuelem huiusmodi sententiam vilipendens prsaedictae monitioni parere et praedicta bona Francisco restituire non curabat, praefatus Episcopus processos ipèsos, aggravando canonice munivit et mandavit omnibus et singulis ne in cibo, potu, loquela vel aliquibus aliis praefato Manueli participarent, alioquin in eos et eorum singulos monitioni et mandato huiusmodi non parentes excommunicatuonem promulgabat ac ecclesiam dictae Domus et alias ecclesia et cappella prefatae Domui pleno iure subiectas eclesiastico supposti interdico, licet postmodum praefatus Franciscus obiit, praefatis suis liberis sibi universali bus haereditus derelictis, idemque Manuel preadicta bona eiousdem haeredibus restituit, et cum eis plane super praemissis concordavit, dictique haeredes consentiunt quod Manuel et alii praedicti qui propter participatinem huiusmodi excommunicati existunt ab huiusmodi exmommunicationis sententia absolvat et dictum interdictum relaxet. Dat. Anagnie duodecimo kal. Jului, anno septimo.

Exhibitia nobis pro parte Manuelis»[347].

 

Se l’assassinio del vescovo Abbondanzio da parte dei Malvitesi rientra appieno nella leggenda e non presenta alcun fondamento storico, difficile è pure dare ombra di veridictà alla medesima legenda che riguarderebbe la presunta uccisione del vescovo di Cassano d aprte degli scaleoti. Un documento datato 12 dicembre 1526 reca l’assoluzione e la benedizione degli abitanti di Scalea, i quali avrebbero sofferto molto per le colpe dei loro progenitori, i quali trecento anni prima avrebbero uccisio il loro vescovo:

«Pro universitate et ho minibus terrae Scaleae, Cassanen. dioc.

Episcopo Cassanen. seu eius Vicario generali et Abbati S.Mariae de Circlario, eiusd. Dioc., commuttitur ut oratores absolvant et benedicano, quia multa mala patiuntur ex eo quod, ut aiunt, progenitores eorum, ante 300 annos, episcopum interfecerunt. Dat. rome, etc. die Decembris 1526, an. Quarto.

Pro parte dil. filiorum»[348].

 

La datazione rinvenibile dal passo ora osservato rimanda approssimativamente al 1220-1230, ma non riusulta in nessun altro documento che un vescovo di Cassano sia stato ucciso dagli abitanti di Scalea, né in quel periodo né in altri. Sembra tuttavia che persista una lunga tradizione tra gli abitanti di Scalea in virtù della quale gli scaleoti fossero soliti attribuire i flagelli di diverse calamità naturali subite negli anni ai propri antenati, colpevoli di aver ucciso un vescovo[349].

Abbiamo poi, la registrazione di un processo istruito dalla Congregazione della Santa Inquisizione contro il principe di Scalea, G.B. Spinello, accusato di “libertinaggio”, tra il 1583 e il 1584[350]. L’epiteto riguarda con buona probabilità accuse relative a pretese perversioni sessuali o comportamenti immorali evidentemente rivolte al nobile. Non abbiamo notizia dell’esito del processo la cui sola esistenza testimonia, comunque, la sussistenza dell’azione corrente della Santa Inquisizione in queste terre.

Si ricordano, inoltre, due documenti degni di nota e di diverso tenore. Il primo, datato 1 aprile 1607 riguarda la concessione di una indulgenza per la confraternita di S.Maria di Monte Carmelo nella chiesa parrocchiale di S.Nicola di Scalea, i occasione della festività della Beata Vergine Maria di Monte Carmelo[351]. Il secondo, riguarda, invece, un beneficio non altrimenti noto:

«Paulo de Angelis, pbro, familiari suo, providdetur  de beneficio simplici, sub invocazione S.Thomae Cantuariensis, in saeculari et collegiata ecclesia de Scalea, Cassanen. dioc., de iurepatronatus laico rum, vac. per ob. Marci antonii de Vecchis, clerici ex. Ro. Cu. def., cuius fructus XXIIII duc. Dat. Rome, apud S. Mariam Maiorem, an. Inc.nis d.mnce MDCXIII, Idus Augusti, Pont.us n.ri an. IX.

Grata familiaritatis obsequia»[352].

 

Il documento, datato 13 agosto fa riferimento ad una inesistente collegiata, mentre il beneficio di S.Taommaso di Canterbury deve, con buona probabilità, essere stato fondato dal vescovo di Cassano Lewis Owen (Aduoeno), di origine inglese. Ma vi è anche la possibilità che il vescovo abbia fatto ricorso ad un preesistente beneficio di origine medioevale a noi ignoto.

Gli altri documenti ed atti esaminati riguardano, in genere, l’assegnazione di benefici ecclesiastici relativi al territorio o alla città di Scalea, ad eccezione di un ultimo documento, il quale solleva più di un dubbio. In data 16 gennaio 1615 il vescovo di Cassano (o in sua vece il suo Vicario generale) sono gli indirizzari della richiesta di esecuzione di un particolare provvedimento: l’assoluzione da censura e la benediizone degli scaleoti:

«Episcopo Cassanen. sive eius Vicario generali. Pro Universitate et homininus terrae seu loci Scaleae, CAssanen. dioc., absolutio a censuri set benedictio. Dat. Rome, apud S.Mariam Maiorem, sub annulo Pisc., die 16 Ianuarii 1615, an. X.

Exponi nobis»[353].

 

Come si può facilmente notare, il documento è piuttosto scarno, ma non ci dà nessun tipo di informazione sulla natura della censura e sulle motivazioni che hanno spinto il vescovo stesso o i suoi predecessori a comminarla.

Lasciandoci con la curiosità per gli eventi adombrati, il presente spoglio si chiude con la speranza che altri volenterosi studiosi possano approfondire quanto necessariamente lasciato in sospeso, per poter meglio comprendere gli eventi e le persone sulle quali si è costruita la storia della nostra diocesi.

 

 

 

 

 

 

 

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[1] Dopo aver ripudiato la prima moglie Alberada per motivi dinastici. Cfr. Malaterra G., De rebus gestis Rogerii Calabriae et Siciliae comitis et Roberti Guiscardi ducis fratri eius, ed. a c. di Pontieri E., Bologna, Zanichelli, Lib.I, cap.XXX.

[2] Cfr. Placanica A., Storia della Calabria: dall’antichità ai giorni nostri, cit., p. 125.

[3] Cfr. Cappelli B., Oggetti di età barbarica a Castrovillari, in «Archivio storico per la Calabria e la Lucania», XXIX (1960), p.62.

[4] La città venne conquistata nel 1047 da Roberto il Guiscardo.

[5] Cfr. D’Agostino E., Da Locri a Gerace: storia di una diocesi della Calabria bizantina dalle origini al 1480, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2004, p. 121.

[6] Regesto, doc. 627.

[7] Il vescovo suffraganeo è chiamato a partecipare al sinodo metropolitano ove ha diritto di suffragio (ius suffragi), la sua consacrazione avviene con il consenso del metropolita di cui poi sarà coadiutore, ecc. Cfr. Moroni G., Dizionario di erudizione storico-ecclesiastica da S.Pietro sino ai nostri giorni, Venezia, Tip. Emiliana, 1855, p. 31. Con il Concilio Vaticano II la suffraganietà è venuta ad indicare un rapporto principalmente formale, a ribadire il legame storicamente esistente tra le varie sedi episcopali interessate. Cfr. Calasso F., Enciclopedia del diritto, Milano, Giuffré, vol.XXVI, 1958, p.195.

[8]Regesto, doc. 628.

[9] Tra il giugno e il luglio del 983: Amato  ne fu il primo arcivescovo. Cfr. Ebner P., Chiesa, baroni e popolo nel Cilento, Roma, Edizioni di storia e letteratura, 1982, vol.II, p.753.

[10] Cfr. Hokltzmann W., Die altesten Urkunden des Klosters S. Maria del Patir, in « Byzantinische Zeitscrift», vol. 26, 1926, p. 340.

[11] Cfr. Ebner P., Chiesa, baroni e popolo nel Cilento, cit., vol.II, p.591.

[12] Regesto, doc. 629.

[13] Regesto, doc. 630.

[14] Regesto, doc. 631, datato 27 dicembre 1019.

[15] Regesto, doc. 632, datato marzo 1021

[16] Regesto, doc. 633, datato 18 febbraio 1047.

[17] Cfr. Kehr P.F., Italia pontificiaX. Calabria-Insulae, a c. di Girgensohn D. – Holtzmann W.,Turici, 1975, pp. 93, 109 ss.

[18] Regesto, doc. 634, datato 22 luglio 1051.

[19] In questo documento compare per la prima ed unica volta come suffraganea di Salerno la Chiesa di Cassano. La cosa ben attesta la presenza normanna in tutta la valle del Crati nel 1058 e, forse, spiegherebbe rivolta contro di essi capeggiata proprio da parte del vescovo di Cassano, l’anno seguente, nel tentativo di opporsi alla loro espansione nell’area. Cfr. Sangermano G., Poteri vescovili e Signorie politiche nel Mezzogiorno d’Italia postgregoriano. LE origini della dignità primaziale della Chiesa salernitana, in AA. VV., Studi in onore di Giosué Musca, a c. di Fonseca C.D. - Sivo V., Bari, Dedalo, 2000, p. 465.

[20] Regesto, doc. 635, datato 24 marzo 1058.

[21] Al 982 d.C. risale l’apice dell’attività scrittoria dei monaci della chiesa di Santa Parasceve di Malvito: le loro copie dei libretti liturgici sono attualmente conservate nella Biblioteca Apostolica Vaticana e sono considerate pregevoli capolavori dell’arte calligrafica manoscritta.

[22] Regesto, doc. 636.

[23] Regesto, doc. 637.

[24] Come attestato da un diploma siglato da Federico II a Siracusa e datato al luglio del 1224.

[25] Regesto, doc. 218.

[26] Cfr. Russo F., Scritti storici calabresi, Roma, CAM, 1957, p. 329.

[27] Cfr. Vendola D. (a c. di), Rationes decimarum Italiae nei secoli XIII e XIV: Apulia - Lucania – Calabria, Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana, 1939, doc. 5150.

[28] Cfr. Lanzoni F., Le diocesi d’Italia dalle origini al principio del secolo VII (an.604), Faenza, 1927, vol. II, p. 331. Il Lanzoni esprime però alcuni dubbi sulla reale possibilità di verificare se Cerella fosse già diocesi anteriormente a questa data, poiché vi è anche la possibilità che fosse divenuta sede provvisoria di un vescovo dei Bruzi, ivi rifugiatosi a seguito dell’invasione longobarda.

[29] Nel suo De antiquitate et situ Calabriae libros V, nunc primum ex autographoù restitutos,... prolegomena, additiones, et notae (Roma, Aceti, 1737), Gabriele Barrio la considerò più che credibile benché già Sertorio Quattromani, nelle sue annotazioni al celebre testo esprimesse tutti i suoi dubbi, chiosando: «Questo è tirare ad indovinare, infatti l'autorità di Livio, il quale scrive che Argentanum con Vergae ritornò ai romani, non prova affatto che sia (S.) Marco»; ivi, p. 173. L’identificazione fu comunque accettata dalla tradizione successiva.

[30] Lib. XXX.19.10.

[31] Così Lanzoni e Cappelletti; contrario Duchesne che ne identifica l’erede nella diocesi di Nicastro (oggi Lamezia Terme). Cfr. Lanzoni F., Le diocesi d’Italia dalle origini al principio del secolo VII (an.604), cit., p. 331. Sulla diocesi di Tempsa cfr. il lavoro di Macchione A., La diocesi di Tempsa (492-871), Soveria Mannelli, Calabria Letteraria, 2008.

[32] Leone IX tolse loro la scomunica precedentemente comminata.

[33] A questo periodo risale l’esibizione della cosiddetta Donazione di Costantino (rivelatasi un falso nel XV sec.) per sostenere e rivendicare la tutela sulla penisola. Per approfondimenti cfr. Vian G., La donazione di Costantino, Bologna, Il Mulino, 2010.

[34] Il concilio si protrasse dal 3 al 25 agosto.

[35] Cfr. Placanica A., Storia della Calabria: dall’antichità ai giorni nostri, Roma, Donzelli, 1999, pp. 123 ss.

[36] Cfr. Girgensohn D., Dall’episcopato greco all’episcopato latino nell’Italia meridionale, in La chiesa greca in Italia dall’VIII al XVI secolo, Padova, Cedam, vol.I, pp. 25-43.

[37] Cfr. Andenna G., Dalla legittimazione alla sacralizzazione della conquista (1042-1140), in Licinio R. – Violante F. (a c. di), I caratteri originari della conquista normanna: diversità e identità nel Mezzogiorno (1030-1130), Bari, Dedalo, 2006, pp. 369-403.

[38] Migne J.P., Patrologiae Cursus completus. Series Latina, Parisiis, Vrayet, vol.151, c. 353.

[39] Cfr. Russo F., Le origini del Vescovado di San Marco, in Russo F., Sull’origine del Vescovado di S. Marco Argentano, in «Archivio Storico per la Calabria e la Lucania», XXXII (1963), fasc.I-II, p.80.

[40] Cfr. Russo F., Sull’origine del Vescovado di S. Marco Argentano, in «Archivio Storico per la Calabria e la Lucania», XXXII (1963), fasc.I-II, p. 85.

[41] Pratesi A., Carte Latine di Abbadie Calabresi provenienti dall’Archivio Aldobrandini, Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana, 1958, doc. n.20.

[42] Tra di essi il Conti meziona la presenza di Riccardo de Say e di due regi giustiziari (Carbonello di Tarsia e Ruggiero di Sanguineto), i baroni Tommaso de Dinante, Pietro di Brahalla, Ugone di S.Donato e alcuni ricchi possidenti della zona (Beringerio Maledocto, Roberto de duna e Pietro Alerii). Cfr. Conti E., L'abbazia della MatinaNote storiche, in «Archivio storico per la Calabria e la Lucania»,  XXXV (1967), p. 26.

[43] Cfr. Pratesi A., Carte Latine di Abbadie Calabresi provenienti dall’Archivio Aldobrandini, cit., doc. n.27.

[44] Cfr. Pratesi A., Carte Latine di Abbadie Calabresi provenienti dall’Archivio Aldobrandini, cit.,  doc. n.33.

[45] Cfr. Conti E., L'abbazia della MatinaNote storiche, cit., p. 26.

[46] Trasportatori o corrieri.

[47] Cfr. Ughello F. - Coleti N., Italia sacra sive de episcopis italiae, Venetiis, Coleti, 1717, vol.IX, p.344.

[48][48] Nei documenti «del Guasto», per deformazione dialettale. Cfr. Ibidem.

[49] Cfr. ibidem.

[50] Cfr. Pratesi A., Carte Latine di Abbadie Calabresi provenienti dall’Archivio Aldobrandini, cit.,  doc. n.81.

[51] Cfr. Mor C.G, Ruggero Gran Conte e l’avvio alla formazione dell’ordinamento normanno, in AA.VV., Ruggero il gran Conte e l’inizio dello Stato normanno – Atti delle seconde Giornate normanno-sveve (Bari, 19-21 maggio 1975), Bari, Dedalo-Università degli Studi di Bari, 1991, pp. 116 ss.

[52] Cfr. Ricca E., La Nobiltà del regno delle due Sicilie, Napoli, Stamp. De Pascale, vol.IV, p.I, 1869, p. 866.

[53] Regesto, doc. 7.

[54] Così veniva denominata nei documenti all’avvicendarsi dei Cistercensi dopo i Benedettini.

[55] Cfr. Ughello F. - Coleti N., Italia sacra sive de episcopis italiae, cit., p. 345.

[56] Regesto, doc. 8.

[57] Cfr. Gatto L., Storia delle Crociate, Roma, Newton, 2012, pp. 26 ss.

[58] Regesto, doc. 527. Il documento sarà più avanti esaminato in dettaglio, al capitolo dedicato all’abbazia di S.Maria della Matina.

[59] Pratesi A., Carte Latine di Abbadie Calabresi provenienti dall’Archivio Aldobrandini, cit., doc. n.101.

[60] Regesto, doc. 10.

[61] Regesto, doc. 12

[62] Regesto, doc. 13.

[63] Si tratta diuna lunga e penosa controversia per la quale si rimanda a Scaduto M., Il monachesimo basiliano nella Sicilia medievale. Rinascita e decadenza (Secoli XI-XIV), Roma, Storia e Letteratura, 1982, pp. 235-239.

[64] Regesto, doc. 14.

[65] Regesto, doc. 17.

[66] Regesto, doc. 18.

[67] Regesto, doc. 19.

[68] Regesto, doc. 21.

[69] Molti esponenti dell’alto clero parteciparono «in prima linea al conflitto […] il vescovo di Cosenza che aveva ostacolato lo schieramento svevo sino alla morte di Manfredi, dal vescovo di di Martirano che veniva fatto prigioniero durante l’assedio di Augusta, al decano di Mileto Saba Malaspina […] preso prigioniero durante l’occupazione della città»; Placanica A., Storia della Calabria: dall’antichità ai giorni nostri, cit., p. 148.

[70] Cfr. Russo F., La guerra del Vespro in Calabria nei documenti vaticani, Napoli, Società di Storia Patria, 1962, pp. 207 ss.

[71] Regesto, doc. 26.

[72] Regesto, doc. 27.

[73] Regesto, doc. 28.

[74] Regesto, doc. 30.

[75] Quest’ultima frase, compare come annotazione a margine.

[76] Regesto, doc. 35.

[77] Regesto, doc. 37,

[78] Sulla cosiddetta “cattività avignonese” cfr. , fra i tanti, Guillemain B., I Papi di Avignone 1309-1376. Arte, cultura, organizzazione, carità. La chiesa al passaggio dal medioevo al mondo moderno, Milano, San Paolo, 2003.

[79] Regesto, doc. 36.

[80] Regesto, doc. 38. Non abbiamo purtroppo notizie sull’esito della questione.

[81] Regesto, doc. 39.

[82] Cfr. Regesto, doc. 35.

[83] Alcuni storici datano l’inizio del suo vescovato al 1321, ma il documento n. 42 posticiperebbe la data al 1323. Cfr. tra gli altri, Conti E., L'abbazia della MatinaNote storiche, cit., p.26; Cristofaro S., Cronistoria di S.Marco Argentano, Cosenza, Il Giornale di calabria, 1932, I, pp. 191-192; Ughello F. - Coleti N., Italia sacra sive de episcopis italiae, cit.; Taccone Gallucci D., Cronotassi dei Metropolitani, Arcivescovi e vescovi della Calabria, Tropea, 1902, p.80.

[84] Regesto, doc. 42.

[85] Regesto, doc. 44.

[86] Regesto, doc. 45.

[87] Regesto, doc. 53.

[88] Regesto, doc. 54.

[89] Regesto, doc. 56.

[90] Regesto, doc. 68.

[91] Regesto, doc. 71.

[92] Regesto, doc. 72.

[93] Regesto, doc. 79.

[94] Sul quale si rimanda, per approfondimenti, al contributo di Rosalba di Meglio, Origini e caratteri dell’Osservanza francescana nel Mezzogiorno. Il regno e la capitale, in  Pellegrini L. – Varanini G.M. (a c. di), “Fratres de familia”. Gli insediamenti dell’Osservanza minoritica nella penisola italiana (sec. XIV-XV) – Quaderni di Storia Religiosa, 2011, pp.295-338.

[95] Cfr. Sensi M., Le osservanze francescane nell’Italia centrale, Roma, Istituto Storico dei Cappuccini, 1985.

[96] Cfr. ivi, p. 52.

[97] Bullarium Franciscanum Romanorum Pontificum, V, ed. C. Eubel, Roma, 1898, n. 650.

[98] Cfr. ivi, VI, n.678.

[99] Ivi, VI, n.684.

[100] Lo stesso avvenne in Umbria e altrove: basti ricordare che a Gaeta, nel 1394, ai frati osservanti fu assegnato l’oratorio di Sant’Agata un tempo occupato dai Fraticelli (vd. ivi, VII, n. 142), e a Roma, dove Martino V nel 1418 stabilì che fossero assegnati loro i loci presso i quali precedentemente si erano stabiliti i Fraticelli (vd. ivi, VII, n. 1393).

[101] Ivi, VI, n.886.

[102] Come indicato in numerosi contributi, tra i quali il già citato Conti, l’Ughelli e il Moroni, per il quale Dizionario di erudizione storico-ecclesiastica, Venezia, Tipografia emiliana, 1846, p.265. Tutti ignorano la tralsazioe di Nicola a San Marco, così come la nomina di giacomo di Potenza a vescovo di Umbriatico.

[103] Regesto, doc. 98.

[104] Regesto, doc. 100.

[105] Regesto, doc. 101.

[106] Regesto, doc. 119.

[107] Regesto, doc. 120.

[108] Cfr. Moroni G., Dizionario di erudizione storico-ecclesiastica da S.Pietro ai nostri giorni, cit., p.265.

[109] Cfr. Silvani L., Storia degli antipapi, Milano, De Vecchi, 1971, pp. 289 e ss.

[110] Regesto, doc. 104.

[111] Regesto, doc. 106.

[112] Regesto, doc. 108.

[113] Cfr. Conti E., L'abbazia della MatinaNote storiche, cit., p. 26.

[114] Regesto, doc. 110.

[115] Regesto, doc. 113.

[116] Regesto, doc. 114.

[117] Per i singoli atti, e tutto ciò che li riguarda si rimanda la trattazione al capitolo sull’abbazia.

[118] Regesto, doc. 129.

[119] Regesto, doc. 130.

[120] Regesto, doc. 131.

[121] Sulla quale si rimanda al capitolo dedictao all’Abbazia della Matina.

[122] Regesto, doc. 138.

[123] Di diverso avviso Conti. Vd. Conti E., L'abbazia della MatinaNote storiche,cit., p. 28.

[124] Regesto, doc. 140.

[125] Di grafia incerta nei documenti che riportano varianti come “Goffridi”, “Gotefredo” e “Gaufrido”.

[126] Regesto, doc. 161.

[127] Regesto, doc. 162.

[128] Ribellioni in funzione antiaragonese si erano sviluppate anche in Abruzzo e Puglia.

[129] Regesto, doc. 164.

[130] Regesto, doc. 166.

[131] Regesto, doc. 167.

[132] Benefici, come specificato nel documenti, pari a quelli già riconosciuti ai Poveri Eremiti di San Girolamo fondati dal Pietro da Pisa e da Nicola da Forca Palena. Cfr. Gentili A., Istanze spirituali e cultura umanistica nel secolo XV, in Zovatto P., Storia della spiritualità italiana, Roma, Città Nuova, 2002, pp. 179 ss.

[133] Regesto, doc. 170.

[134] Cfr. Fiorini Morosini G., Il carisma penitenziale di S.Francesco di Paola e dell’Ordine dei Minimi: storia e spiritualità, Roma, Curia Generalizia dell’Ordine dei Minimi, 2000, pp. 299 ss.

[135] Cfr. Sole G., Francesco di Paola: il santo terribile come un leone, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2007.

[136] ASV, Reg. Lat., 723, f.214v-214r.

[137] ASV, Reg. VAt., 566, f.1r-4r.

[138] Regesto, doc. 173.

[139] Regesto, doc. 181.

[140] Regesto, doc. 182.

[141] Regesto, doc. 186.

[142] Regesto, doc. 192.

[143] Regesto, doc. 193.

[144] Cfr. Conti E., L'abbazia della MatinaNote storiche, cit., p. 28.

[145] Cfr. Borsari S., Francesco d’Aragona, in Dizionario biografico degli italiani, Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana, vol. III, 1961, pp. 209-210.

[146] Regesto, doc. 208.

[147] Regesto, doc. 214.

[148] Regesto, doc. 215.

[149] Regesto, doc. 217.

[150] Regesto, doc. 220.

[151] Regesto, doc. 228.

[152] Confermata da due ulteriori documenti che individuano nel cardinale Antonio di sanseverino l’autore del provvedimento, rispettivamente datati, il primo 11 ottobre 1529 : «Antonio de Sanctoseverino Card.li reservantur omnes fructus monasterii S.Mariae de Camigliano, O.S.B., Rossanen. dioc., quod commendatur Bernardo Gaudioso, pbro S.Marci dioc.» (Regesto 229); e il secondo risalente al 13 ottobre successivo: «Die XIII Octobris 1529, Rev.mus d.Antonius, tit. S.Apollinaris S.R.E. pbr Card.lis de Sancto severino, resignavit commendam mon.rii seu abbatie S.te marie de Camiliano, O.S.B., in territorio Tarsie, Rossanen. dioc., in favorem Bernardini de Gaudioso, clerici S.Marci dioc., reservatis sibi fructibus et regressu, et commendatur sub dat. Interamne V Idus Octobris, an. sexto» (Regesto, doc. 230)

[153] Regesto, doc. 231.

[154] Regesto, doc. 232.

[155] D’Amato E., Pantopologia Calabra, Cosenza, Brenner, 1980, p.34.

[156] Regesto, doc. 233.

[157] Regesto, doc. 235.

[158] Regesto, doc. 242.

[159] Regesto, doc. 255.

[160] Regesto, doc. 270.

[161] Regesto, doc. 271.

[162] Regesto, doc. 278.

[163] Regesto, doc. 279.

[164] Regesto, doc. 280.

[165] Regesto, doc. 282.

[166] Regesto, doc. 283.

[167] Regesto, doc. 286.

[168] Cfr. Regesto, doc. 287.

[169] Cfr. Regesto, doc. 288.

[170] Regesto, doc. 289.

[171] Regesto, doc. 294.

[172] Cfr. Regesto, doc. 296.

[173] Cfr. Regesto, doc. 297.

[174] Come accade, ad esempio, nella lettera al vescovo di Nicastro, per la quale cfr. regesto, doc. 297.

[175] Cfr. Regesto, doc. 300.

[176] Cfr. regesto, doc. 301.

[177] Cfr. Regesto, doc. 302.

[178] Regesto, doc. 303.

[179] Regesto, doc. 304.

[180] Cfr. Regesto, docc. 305 e 306, datate rispettivamente 28 e 30 marzo 1568.

[181] La vecchia Cirella era stata sede di diocesi nell’alto medioevo e, generalmente, le ex cattedrali divenivano collegiate, una ovlta persa la sede vescovile.

[182] Regesto, doc. 311.

[183] Regesto, doc. 312.

[184] Cfr. Regesto, doc.314.

[185] Regesto, doc. 315.

[186] Regesto, doc. 316.

[187] Regesto, doc. 317.

[188] Regesto, doc. 318.

[189] Regesto, doc. 319.

[190] Cfr. Regesto, doc. 320.

[191] Cfr. Regesto, doc. 322.

[192] Regesto, doc. 323.

[193] Regesto, doc. 327.

[194] Regesto, doc. 329.

[195] Cfr. Regesto, doc. 332.

[196] Regesto, doc. 334.

[197] Regesto, doc. 338.

[198] Cfr. Regesto, doc. 340.

[199] Regetso, doc. 341.

[200] Regesto, doc. 344.

[201] Regesto, doc. 346.

[202] Regesto, doc. 348.

[203] Regesto, doc. 349.

[204] Regesto, doc. 350.

[205] Regesto, doc. 351.

[206] Regesto, doc. 352.

[207] Regesto, doc. 353.

[208] Regesto, doc. 354.

[209] Regesto, doc. 356

[210] Regesto, doc. 355.

[211] Per approfondimenti vd. Panetta R., Pirati e corsari turchi e barbareschi nel Mare Nostrum XVI secolo, Milano, Mursia, 1981.

[212] Cfr. Russo F., La Calabria a Lepanto, in «Historica», XXVI (1973), pp. 32-38 e Valente G., Calabria, Calabresi e Turcheschi nei secoli della pirateria (1400-1800), Chiaravalle, Frama Sud, 1973, pp. 181-273.

[213] Regesto, doc. 370.

[214] Regesto, doc. 361.

[215] Regesto, doc. 372.

[216] Regesto, doc. 366.

[217] Regesto, doc. 374.

[218] Regesto, doc. 367.

[219] Regesto, doc. 380.

[220] Quando la chiesa venne demolita, nel 1941, l’immagine venne traslata nella Parrocchia di Santa Maria delle Grazei al Trionfale dove una lapide ricorda frate Albenzio, la sua vita e le opere. Cfr. Martire D., Calabria Sacra e Profana, Cosenza,  Migliaccio Tip., vol.II, 1878, pp.261-269.

[221] Cfr. Regesto, doc. 381.

[222] Regesto, doc. 382.

[223] Regesto, doc. 383.

[224] Regesto, doc. 384.

[225] Sebbene amico di Tommaso Campanella, non ne è stato mai provato alcun coinvolgimento nella congiura del 1599. Cfr. Capialbi V., Memorie per servire alla storia della S. chiesa Milenese, Napoli, Tip. Porcelli, 1835, pp. 58-61.

[226] Cfr. Conti E., L'abbazia della MatinaNote storiche, cit., p.28.

[227] Regesto, doc. 385.

[228] Regesto, doc. 386.

[229] Regesto, doc. 389.

[230] Regesto, doc. 390.

[231] Regesto, doc. 391.

[232] Cfr. Regesto, docc. 398-399.

[233] Regesto, doc. 402.

[234] Regesto, doc. 403.

[235] Regesto, doc. 404.

[236] Regesto, doc. 409.

[237] Regesto, doc. 412.

[238] Regesto, doc. 410.

[239] Regesto, doc. 413.

[240] Regesto, doc. 419. La persona da nominare, viene nominata in un altro documento recante la stessa data ovvero, Grazioso dei Graziosi. Cfr. Regesto, doc. 421.

[241] Regesto, doc. 424.

[242] Regesto, doc. 429.

[243] Regesto, doc. 432.

[244] Per le quali vd. Regesto, docc. 431, 437 e lo stesso avverrà anche durante i successivi vescovati, per i cui dettagli si rimanda a Regesto, docc. 453, 455, 465, 489, 497, 499, 513, 514.

[245] Regesto, doc. 440.

[246] Vd. Regesto, doc. 460.

[247] Regesto, doc. 461.

[248] Sulle cui vicende si rimanda all’esauriente Fortino I., I martiri di Ceuta. Alle origini del francescanesimo in Calabria, Soveria Mannelli, rubbettino, 2006.

[249] Cfr. Zangari D., I Sette SS.Frati Minori di S.Francesco martirizzati a Ceuta nel Marocco (1227), Napoli, La cultura calabrese, 1926, p.14.

[250] Regesto, doc. 467, ma vd. anche docc. 466 e 468 che ne confermano i contenuti.

[251] Regesto, doc. 471.

[252] Cfr. Conti E., L'abbazia della MatinaNote storiche, cit., p. 29.

[253] Regesto, doc. 475.

[254] Per approfondimenti si rimanda a Tauwinkl W., La discussione teologica sulle indulgenze dal Concilio Vaticano II fino ad oggi, Norderstedt,  BoD, 2008.

[255] Regesto, doc. 477.

[256] Regesto, doc.501.

[257] Regesto, doc.502.

[258] Regesto, doc.503.

[259] Regesto, doc.504

[260] Cfr. ivi, p. 40.

[261] Archivio Aldobrandini, doc. St., Abbazie 2, 10 (2).

[262] Regesto, doc. 521.

[263] «I cronisti normanni Malaterra, Amato di Montecassino, il poeta Guglielmo di Puglia non mancano di far cenno delle prime avventurose scorrerie del Guiscardo, il quale, con scarsi mezzi, messo dopo pochi giorni dall’arrivo in precarie condizioni di sussistenza, dovette vivere sulle risorse del paese, usando l’astuzia e la forza […] agli eruditi di oggi è sembrato lecito sfoggio di erudizione ricordare il racconto del finto morto delle saghe nordiche per dubitare della veridicità dello stratagemma escogitato dal Guiscardo per impadronirsi del casale e del convento della Matina, dove, infatti, deve collocarsi l’episodio narrato da Guglielmo di Puglia […] appunto alla Matina che il che il finto morto seguito dai commilitoni penetrati nella cinta fortificata per la benedizione del defunto, mise piede il Guiscardo, creandosi così quella base indispensabile all’azione operativa e addestrativa»; Conti E., L'abbazia della MatinaNote storiche, cit., p. 16.

[264] Cfr. Dalena P., Istituzioni religiose e quadri ambientali nel Mezzogiorno medievale, cosenza, Duemme, 1999.

[265] Il primo documento redatto in latino ivi conservato risale al 1142, quasi ottanta anni dopo l’arrivo dei normanni.  Cfr. Pratesi A., Carte Latine di Abbadie Calabresi provenienti dall’Archivio Aldobrandini, cit., doc. n.11, pp.35-36. Del resto, rileva Conti come «la scelta della lingua in cui emanare un documento pubblico dipendeva infatti essenzialmente dagli usi della cancelleria dell’autore. Il caso della cancelleria della contea normanna di Calabria-Sicilia, poi cancelleria del regno, capace di emanare documenti in greco, latino e arabo a seconda della tipologia degli atti e della lingua dei destinatari, è del tutto isolato»; Conti E., L'abbazia della MatinaNote storiche, cit., p.17.

[266] Quando Atanasio Calceopulo compì una visita dei monasteri greci nel Meridione, verso la metà del XV, nell’area che qui ci interessa ne rimanevano soltanto due, ovvero: il monastero di Santa Maria di Macle, presso Agri, già in sato di abbandono, e quello di San Benedetto di Ragina, sulla riva destra del Crati, che ospitava l’abate Paolo e due soli monaci. Cfr. Laurent M.H. – Guillou A., Le liber visitationis d’athanase Chalképoulos (1457-1458). Contribution a l’histoire du monachisme grec en Italie méridionale, Citta del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana, pp. 147-148.

[267] Si ricordano qui la fondazione dei monasteri benedettini di Sant’Elia a Carbone, in Basilicata, di Santa Maria del Patir a Rossano, in Calabria o di San Nicola di Casole, vicino Otranto. Cfr. Houben H., Il monachesimo benedettino e l’affermazione del dominio normanno nel Mezzogiorno, in Id., Tra Roma e Palermo Aspetti e momenti del Mezzogiorno medioevale, Galatina, Università degli Studi di Lecce, 1989, pp.95 ss.

[268] Cfr. Conti E., L'abbazia della MatinaNote storiche, cit., p.17.

[269] Cfr. Laurent M.H. – Guillou A., Le liber visitationis d’athanase Chalképoulos (1457-1458). Contribution a l’histoire du monachismo grec en Italie méridionale, cit., p. xxxiv; vd. anche Guillou A., Il Monachesimo greco in Italia Meridionale e in Sicilia nel Medioevo, in L’eremitismo in Occidente nei secoli XI e XII. Atti della seconda settimana sociale di studi della Mendola (1962), Milano, Università Cattolica, 1965, pp. 355-379.

[270] Galuzzi A., Origini dell'Ordine dei Minimi, Roma, Pontificia Università Lateranense, 1967, p.18.

[271] Cfr. Galuzzi A., Origini dell'Ordine dei Minimi, cit., p.7.

[272] Cfr. Laurent M.H. – Guillou A., Le liber visitationis d’athanase Chalképoulos (1457-1458). Contribution a l’histoire du monachismo grec en Italie méridionale, Citta del Vaticano, 1960.

[273] Ms. Vaticanus 8486.

[274] Regesto, doc. 522.

[275] Regesto, doc. 523.

[276] In Pratesi A., Carte Latine di Abbadie Calabresi provenienti dall’Archivio Aldobrandini, cit., doc. n.1, p.5.

[277] Cfr. ivi, doc.5, p.19.

[278] Cfr. Gobry I., Cavalieri e pellegrini. Ordini monastici e canonici regolari nel XII secolo, Roma, Città Nuova, 2000, p. 62.

[279] Regesto, doc. 527.

[280] Regesto, doc. 528.

[281] Regesto, doc. 529.

[282] Cfr. Pratesi A., Carte Latine di Abbadie Calabresi provenienti dall’Archivio Aldobrandini, cit., doc. n.136.

[283] Da leggersi “S. Maria de Matina, unica abbazia cistercense nella diocesi di S.Marco.

[284] Regesto, doc. 530.

[285] Cfr. Pratesi A., Carte Latine di abbazie Calabresi provenienti dall’Archivio Aldobrandini, cit., p.xvi.

[286] Lodovico Imbriaco, XX° vescovo di San Marco (1404-1435): monaco benedettino del Monastero di Santa Maria della Cappella fuori le mura di Napoli.Cfr. Conti E., L'abbazia della MatinaNote storiche, cit., p.18.

[287] Reg. Vat. 337, f.155 v (col.148v); Regesto, doc. 570.

[288] Reg. Vat. 337, f.229 (col.222); Regesto, doc. 571.

[289] Reg. Vat.337, f.246 (col. 239); Regesto, doc. 572.

[290] Questo tipo di “affido” dei benefici iniziò ad avere larga diffusione dal X secolo, giungendo a sollevare pesanti rimostranze tra le correnti riformatrici dei XII-XIV secc. Il suo abuso perdurò, tuttavia, giungendo all’apice della diffusione durante i secc. XVI-XVII. Il concilio di Trento cercò di porre fine all’abuso dell’istituto ma si può dire che esso sia stato accantonato del tutto solo negli ultimi decenni del XX secolo. Cfr. Penco G., Il monachesimo fra spiritualità e cultura, Milano, Jaca Book, 1991, pp. 283-284.

[291] Si ricorda l’opera di riforma dell’abbazia di Farfa operata dal suo commendatario, il Cardinale Francesco Carbone, cistercense, vescovo di Monopoli e poi di Sabina, o quella portata avanti dal cardinale Domenico Capranica, il quale, profittando del soggiorno alla corte pontificia, promosse la riforma dei monasteri affidatigli, soprattutto di quello cisterciense di San Salvatore a Settimo, affidatogli in commenda nel 1436. Quando vi rinunciò, nel 1411, il monastero era divenuto il punto di partenza per la rinascita dell’Ordine. Cfr. Esch A., Carbone Francesco card., in Dizionario biografico degli Italiani, XIX, Roma, 1976, pp.691-692 e Strnad A.A., Capranica D., in Ivi, p.150.

[292] Reg. Lat. 217, ff.20-21v (col.10-20v); Regesto, doc. 574.

[293] Annat. Lib.II, f.33v, (col.32v); Regesto, doc. 576.

[294] Annat. Lib. II, f.191v (col.190v); Regesto, doc. 578.

[295] Regesto, doc. 134.

[296] Cfr. Fink K.A. – Iserloh E., Dal medioevo alla riforma, in Beck H.G. – Fink K.K. – Glazik J. – Iserloh E., Tra Medioevo e Rinascimento. Avignone – conciliarismo, tentativi di riforma XIV-XVI secolo, Milano, Jaca Book, 1993, pp. 359 e ss.

[297] Cfr. Ries J., Cristianesimo, religioni e culture: incontro e dialogo, Milano, Jaca Book, 2009, pp.199 ss.

[298] Regesto, doc. 135.

[299] Cfr. Russo F., Storia iella diocesi di Cassano Ionio, Napoli, Laurenziana, 1964, vol. I, p. 267.

[300] Reg. Lat. 435, f.191v-193 (col. 189v-191); Regesto, doc. 581.

[301] Cfr. Fago L., San Marco Argentano, Castrolibero, Perri, 1982, p.37.

[302] Regesto, doc. 583.

[303] Reg. Lat. 563, f.147; Regesto, doc. 584.

[304] Cfr. Zangari D., Le colonie italo-albanesi in Calabria. Storia Demografica secoli XV-XIX, Napoli, Casella, 1940.

[305] Cfr. Marchese G., Tebe Lucana. Val di Crati e l’odierna Luzzi, Cosenza, Brenner, 1992, p.221.

[306] Regesto, doc. 587.

[307] Regesto, doc. 587.

[308] Regesto, doc. 588.

[309] Regesto, doc. 171.

[310] Regesto, doc. 172.

[311] Regesto, doc. 592.

[312] Regesto, doc. 593.

[313] Regesto, doc. 598.

[314] Regesto, doc. 599.

[315] Il cui nome ritorna come commendatario dei due monasteri cistercensi anche in un altro documento di poco successivo, datato 11 aprile 1494: «Die XI aprilis 1494, ven. li svir d.nus blasius de cesena, procurator d.ni Nicolai Antonii de Carazoli, commendatari mon.rum eccl.e S.Marie de matina et S.Marie de Sambocina, ordinis Cistercien., S.ci marci et Bisignanen. Dioc., unito rum, obtulit pro communi servitio monasterium dictorum, ratione provisionis sibi facte per bullas d.ni Alexandri ppe Sexti sub dat. Quarto Non. aprilis anno secundo fl. auri de camera sexaginta et quinque minuta servitia consueta…solvendo medietatem infra sex mense set aliam medietatem infra alios sex menses extunc secuturus»; Regesto, doc. 601.

[316] Regesto, doc. 600.

[317] Regesto, doc. 602.

[318] Regesto, doc. 603.

[319] Regesto, doc. 905.

[320] Regesto, doc. 611.

[321] Regesto, doc. 616.

[322] Regesto, doc. 917.

[323] Cfr. Zinzi E.,  I Cistercensi in Calabria. Presenze e memorie, Soveria Mannelli, Rubbettino, 1999, pp. 50-51.

[324] Regesto, doc. 618.

[325] Cfr. Poli G., I contratti agrari in Terra di Bari nel Cinquecento, in Massafra A. (a c. di), Problemi di storia delle campagne meridionali nell’età moderna e contemporanea, Bari, Dedalo, 1981, pp. 330 ss.

[326] Regesto, doc. 619.

[327] Regesto, doc. 620.

[328] Regesto, doc. 621.

[329] Cfr. Conti E., L'abbazia della MatinaNote storiche, in «Archivio storico per la Calabria e la Lucania»,  XXXV (1967), p. 24.

[330] Regesto, doc. 622.

[331] Regesto, doc. 623.

[332] Datati, rispettivamente 5 gennaio e 22 agosto del 1605.

[333] Regesto, doc. 624.

[334] Regesto, doc. 625.

[335] Regesto, doc. 626.

[336] In seguito al decreto napoleonico di soppressione che prevedeva la demanializzazione e la successiva vendita ai privati dei beni così acquisiti. Cfr. Zinzi E., I cistercensi in Calabria: presenze e memorie, Soveria Mannelli, Rubbettino, 1999, p. 51.

[337] Cfr. Russo F., Storia della Chiesa in Calabria: dalle origini al Concilio di Trento, Soveria Mannelli, Rubbettino, 1982,vol.II,  p. 507.

[338] Cfr. Russo F., Storia della Chiesa in Calabria: dalle origini al Concilio di Trento, Soveria Mannelli, Rubbettino, 1982, vol.I, pp. 97 ss.

[339] Regesto, doc. 654.

[340] Regesto, doc. 668.

[341] Vd. Reg. Ang. 202, f.207v. Cfr. Minasi G., Il Monastero Basiliano di S.Pancrazio sullo scoglio di Scilla. Note storiche e documenti, Napoli, Stabilimento tipografico Lanciano e D’Ordia, 1893, pp. 152-153.

[342] Regesto, doc. 673, ma vd. anche docc. 674-675.

[343] Regesto, doc. 676.

[344] Regesto, doc. 677.

[345] Regesto, doc. 670.

[346] Cfr. Regesto, docc. 679 e 680.

[347] Regesto, doc. 680.

[348] Regesto, doc. 683.

[349] Cfr. Russo F., Storia della diocesi di Cassano allo Ionio, Napoli, Laurenziana, 1967, vol. III,  pp.42-43.

[350] Regesto, doc. 689.

[351] Regesto, doc. 705.

[352] Regesto, doc. 707 e cfr. doc. 708  che lo conferma.

[353] Regesto, doc. 710.

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