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Giulio Rospigliosi (1655-1667)

Nel momento in cui Fabio Chigi deponeva il suo abito da segretario pontificio, per assumere lui stesso la Santa carica che lo rese Alessandro VII, nel conclave del 1655, presto si ebbe l’urgenza di trovare un sostituto. La segreteria di Sua Santità richiedeva ora un nuovo alto funzionario che con altrettanta capacità potesse sorreggere il nuovo papa nel progetto di rinnovamento spirituale della Chiesa al quale egli ambiva già negli anni del segretariato.

Si deve tenere presente il rilievo che la segreteria aveva a quel punto raggiunto, non solo perché essa si rivelava una posizione che poteva condurre al pontificato, ma anche perché il pontefice stesso, che l’aveva ricoperta, ne comprendeva l’importanza. Essa rappresentava ormai, sotto gli occhi di tutto, un ruolo chiave che, in effetti, il pontefice teneva in gran conto.

Fabio Chigi conosceva Rospigliosi dal 1629. Era un amico di lunga data, e fidato, sin dai tempi del suo lavoro presso la nunziatura di Spagna, a Madrid. Egli, come già Chigi, operava nella cerchia del cosiddetto “Squadrone volante”, dei cardinali indipendenti dalle potenze europee, scesi a redimere la Chiesa, a renderla indipendente e libera. I due cardinali erano destinati a sorreggersi nella medesima impresa di rinnovamento. È così che Rospigliosi rilevò la segreteria mentre Chigi assumeva il pontificato e così a seguire dalla segreteria a sua volta sarebbe stato eletto nuovo papa, alla morte dell’amico, con il nome di Clemente IX. Mai come ad allora la segreteria svolse una funzione così decisiva nei meccanismi che si stavano innescando nella nuova Chiesa.

La famiglia Rospigliosi, trapiantatasi a Pistoia, dove Giulio nacque e fu battezzato nel 1600, era di umili origini, ma agiata e benestante. Giulio apparteneva a quel tipo di famiglia che uno dei suoi valenti biografi, Luciano Osbat, definì «della nobiltà comunale e popolana»[1]. Era una famiglia industriosa, che seppe svilupparsi ed elevarsi socialmente nel commercio della lana, nei lavori agricoli e negli investimenti immobiliari. Ciò consentì a Giulio di potersi dedicare agli studi, formandosi nelle materie della filosofia e della teologia, a Roma e a Pisa dove insegnò, per un breve periodo, all’università. Particolare interesse egli ebbe anche per gli studi letterari e per la poesia, che sempre egli conservò – come vedremo – e per il quale sempre fu ricordato, rimanendo il lui in effetti costantemente aperta una vera e propria vocazione letteraria.

Giulio, a differenza di molti altri cardinali segretari che lo precedettero, nonostante un suo interesse per la disciplina del Diritto, non ebbe una formazione giuridica, bensì si specializzò in quella disciplina di studio che all’epoca veniva denominata “filosofia sacra”. Di lì si avviò alla carriera ecclesiastica, grazie all’insostituibile apprezzamento che di lui ebbe la famiglia Barberini alla quale egli si avvicinò a Roma, e la quale lo introdusse negli alti ambienti della Curia romana.

Giulio non aveva precedenti nella sua famiglia, era il primo a intraprendere una tale strada. Le lettere private[2] che il giovane chierico spediva alla famiglia mostrano l’amorevole apprensione dei suoi cari perché il loro figlio potesse riuscire. Sembra ritrovare quella medesima apprensione affettuosa che ancora oggi agita le famiglie nel seguire i figli nella loro crescita.  Le richieste di aiuto, le esitazioni e gli incoraggiamenti, che emergono in quel rapporto epistolare, emozionano. Giulio Rospigliosi appare in questi documenti nel suo aspetto più umano, protetto dal calore della sua famiglia, mentre compie i primi passi nella grande Roma cattolica.

Ed ecco Giulio assumere velocemente le cariche ecclesiastiche più rilevanti. Nei primi anni Trenta, egli è segretario della Congregazione dei sacri riti delle cerimonie, preposta alla disciplina del culto liturgico e alle cause per la canonizzazione dei Santi e al culto delle reliquie. Tralasciamo le numerose altre cariche rivestite da Giulio, per evitare freddi ed inutili elenchi, ma ricordiamo questa, per la centralità che ebbe nella Curia romana e per la specifica competenza nella sfera spirituale. Era un organismo responsabile di vegliare sul culto divino, compresa l’organizzazione delle cerimonie pontificie. Il primo grande incarico di Rospigliosi non fu quindi in ambito diplomatico, ma sacro, Egli ebbe a cuore il valore del rito nella vita della Chiesa, quale sua componente essenziale. La devozione, la preghiera, la santità, queste erano le questioni nelle quali Rospigliosi veniva massimamente coinvolto, prima di accedere, qualche tempo dopo, alla carica di segretario di Sua Santità.

Egli fu anche segretario dei Brevi ai prìncipi, il quale era incaricato di curare i documenti pontifici che la Santa Sede rivolgeva ai governi, nonché le allocuzioni nei concistori, le encicliche ed anche le lettere apostoliche. Era un incarico, questo della corrispondenza diplomatica, che ancora una volta lo portava ad avvicinare, intorno al 1635, il Santo Padre, in quegli anni, Urbano VIII dei Barberini. Rospigliosi era, come si può vedere, quasi destinato ad avvicinarsi al pontificato, come se fosse da esso e ad esso attratto.

Ma non sono solo i passi che Giulio fece verso la segreteria del pontefice a interessarci, ma anche  e soprattutto lo spirito con il quale egli li compiva.. Di questo spirito, celato da molta delicata riservatezza, è rimasta traccia nella sua corrispondenza epistolare ai famigliari, nella quale si trovano preziosi documenti confidenziali della sua indole e dei suoi pensieri più veri.

Una bellissima lettera dei primi anni Quaranta, quindi di una fase di mezzo della vita di Giulio, svelano un dettaglio del suo carattere che sempre lo contraddistinguerà. Essa prelude ad un nuovo periodo della sua vita che lo vedrà preso, anima e corpo, dalla diplomazia vaticana in Spagna. Nella missiva, Giulio rifletteva sull’importanza della propria formazione e sui pericoli che la vita riserva, così pronta a far “disimparare” ciò che con tanta cura prima è stato insegnato: «Per quello che concerne l’imparare in Seminario» scriveva nel 1641 al fratello, Camillo «si può fare profitto nella Dottrina ma fuori di questo è più tosto un disimparare certa gentilezza nel vivere, e certo spirito nel trattare»[3].

La lettera è bella e toccante. Testimonia un’amarezza, di chi vede il mondo quotidianamente allontanarsi dall’insegnamento della Chiesa, così come anche indica una luce in chi, come Giulio, ancora vede, distingue e ama quel senso della gentilezza e dello spirito.

La spiritualità dei riti, dei documenti pontifici, delle trattative: stiamo qui seguendo il percorso che compie Giulio mentre si avvicina alla segreteria pontificia dove ebbe infine la responsabilità di far sentire la voce del pontefice.

Giulio Rospigliosi ottenne la carica di Segretario, dopo la nunziatura spagnola, dove ebbe modo di collaborare strettamente con Fabio Chigi. Diventato prima di lui segretario, Chigi continuò ad averne stima e ancora e sempre più egli ne ebbe, una volta diventato papa, quanto decise nel 1655, dopo il lungo e travagliato conclave, di avere Giulio al suo  fianco a sovrintendere agli affari della Chiesa. Egli entrò quindi nella Segreteria che diresse per ben dodici anni, un periodo quindi lungo, interrotto dalla morte del Santo Padre Alessandro VII.

Questi dodici anni assorbirono Rospiglioni in un’intensa attività diplomatica che vedeva il pontificato impegnato su più fronti, davanti sia all’espansione dei Turchi nell’Europa cristiana, sia dei difficili rapporti con la Francia di Luigi XIV, gelosa delle attenzioni che il papa rivolgeva alla Spagna, e che già tentò di mettere il veto nel conclave del 1655, attraverso i cardinali francesi,  per impedire che Fabio Chigi divenisse papa. La Roma pontificia rimase per un periodo priva di un ambasciatore francese, così come da Parigi fu espulso il nunzio apostolico, segno di tensioni che portarono ad una temporanea rottura diplomatica in seno all’Europa cattolica. È da ricordare l’indole del monarca de «Lo stato sono io», il quale a dimostrazione della sua autonomia da Roma procedette a nomine vescovili senza interpellare la Santa Sede.

Rospigliosi fu al centro di questi intricati giochi diplomatici che vedevano l’unità cattolica europea messa in pericolo. L’unità era minata da controversie teologiche che rischiavano di separare politicamente la Francia dalla cattedra di San Pietro, tra le quali spicca la questione del giansenismo, con il suo dogma della predestinazione della salvezza degli uomini, contrapposto al cristianesimo cattolico-romano che invece portava l’attenzione sul senso divino e cristologico della misericordia. Il segretario Rospigliosi sostenne il suo papa, Alessandro VII il quale, proseguendo l’opera del suo predecessore, Innocenzo X, di cui era stato segretario, si era poi anche lui impegnato in un’azione di condanna (bolla Ad sacram beati Petri sedem, 1656 e la Regiminis Apostolici, 1665). Diventato a sua volta papa, Rospigliosi tentò un approccio più conciliante, che condusse alla cosiddetta “pace clementina”, nel 1669, fatta di compromessi e di richiami all’unità cattolica.

L’opera dei due segretari e papi, tanto di Fabio Chigi quanto del suo successore, Rospigliosi, sulla questione giansenista, illustra un’arte diplomatica al servizio delle dispute teologiche, là dove esse stavano minando pericolosamente l’equilibrio dei governi in Europa. Complessivamente – in effetti la questione giansenista costituisce soltanto un esempio, tra i più significativi – l’opera diplomatica e politica sempre si legò all’opera evangelica, a tal punto e in maniera così inscindibile che nei due casi il segretario pontificio sarebbe diventato papa, a testimoniare il legame tra le attività diplomatiche e l’autorità religiosa. Mai come in questi due casi possiamo considerare l’attività del segretario orientata ad una diplomazia evangelica, che coglieva nei rapporti con i governi il contesto e le dinamiche entro le quali orientare la dottrina cattolica e il suo messaggio di salvezza, per conseguire una pace tra gli stati cristiani.

A pochi giorni dalla morte di Alessandro VII, nel 1667, venne convocato il conclave per l’elezione del nuovo pontefice. La sede rimase vacante per un periodo non lungo. Riunitisi presso la Cappella Sistina per espletare le votazioni, i cardinali impiegarono poco più di due settimane per designare il nuovo pontefice, segno di una Chiesa che stava ormai ritrovando la sua armonia.

Nella ricostruzione storica del conclave, ad emergere con grande chiarezza è la capacità diplomatica lungamente dimostrata da Rospigliosi che lo rendeva una figura d’eccezione, subito apprezzata e acclamata per guidare la Chiesa dopo il papa dei Chigi. Rospigliosi in effetti aveva lavorato agli equilibri tra i maggiori governi dell’Europa cattolica, così egli era – come si legge in una cronaca del Seicento[4] – desiderato dagli Spagnoli, dai Francesi non abborrito, dai Barberini grandemente considerato, e allo stesso tempo era creatura dei Chigi, nonché membro dello “Squadrone volante” che, già attraverso il cardinal Decio Azzolino, aveva guidato i cardinali all’elezione del pontefice defunto. Rospigliosi era l’emblema di una Chiesa dell’intesa, accogliente, aperta a tutti gli Stati, così come anche alle grandi famiglie romane, e allo stesso tempo libera dai condizionamenti dei governi.

Il racconto d’epoca redatto dallo storico Leti, che minuziosamente narra delle vicende del conclave, oltre a sottolineare gli equilibri  internazionali di cui Rospigliosi si era mostrato capace in qualità di segretario di stato, e che lo rendevano una figura d’eccezione, insiste nel descrivere l’acclamazione del popolo, che prima ancora della chiusura delle elezioni, già si recava a San Pietro a celebrarlo e a pretenderlo come nuovo papa. Si scrive: «corse tumultuosamente il Popolo al Vaticano con credenza sicura della sua assunzione, promulgata dalle voci popolari per tutta la Città, e divulgata tant’oltre […] che sforzò ancora i più saggi a credere alla moltitudine»[5].

Rospigliosi, eletto pontefice il 20 giugno 1667, con il nome di Clemente IX, rappresenta una figura significativa di segretario-papa, che forse ancora più di Fabio Chigi e persino in minor tempo, seppe lavorare alla costruzione di un’Europa cristiana unita e di una Roma cattolica compatta. Come Chigi, se possiamo comparare queste due figure così similari, entrambe passate dalla segreteria pontificia al pontificato, egli volle rappresentare una Chiesa compassionevole, vicina ai popoli e al popolo che accoglie e nel quale ritrova il suo spirito più autentico, quasi esso fosse la vera guida.

Questo è il ricordo più intenso del segretario-papa al quale ci piace ritornare, quello dell’uomo del popolo, che sigilla le sue virtù con la più importante, quella della carità. La vicinanza alla gente di Roma segnerà il pontificato di Rospigliosi, dalla sua prima acclamazione e ancora negli anni a seguire. È documentato come egli ebbe l’abitudine di visitare di frequente gli infermi negli ospedali ai quali, in maniera tanto simbolica quanto concreta, portava loro «conforto e cibi»[6]. È, come possiamo vedere, il papa che accorre verso i bisognosi, portando loro nutrimento, un simbolo di speranza e di salvezza.

Ancora insistiamo su questo spirito caritatevole di Rospigliosi, che certamente apprese negli anni del segretario, nel quale si allenò all’arte diplomatica, l’importanza del gesto accogliente e ospitale, del valore evangelico dell’incontro e del benvenuto.  È fu così che egli, ogni giorno, volle che al Palazzo pontificio fossero accolti dodici poveri – altre fonti parlano di dodici pellegrini – imbandendo per loro una tavola alla quale potessero sfamarsi[7]. Il bel gesto richiama, nel numero dei dodici poveri e pellegrini, il numero degli apostoli di Cristo. Era una santa imitazione del messaggio evangelico, per cui quei poveri e quei pellegrini radunati avrebbero rappresentato, quotidianamente, i nuovi discepoli di Cristo. La tavola imbandita e il mangiare insieme si fanno essi stessi simbolo di una Chiesa ospitale che apre la porta agli ultimi tra gli ultimi e al forestiero, a chi è lontano dalla propria casa e a chi ne è del tutto privo. Essi sono gli apostoli e in essi la Chiesa ritrova il suo messaggio di salvezza.

Il numero dodici ha e conserva agli occhi di Rospigliosi un valore mistico al quale numerose volte e nelle grandi imprese egli ricorse. La tavola dei dodici pellegrini non costituisce un caso isolato. Ancora più celebre è la realizzazione, sotto il suo pontificato, dei dodici angeli del ponte di Castel Sant’Angelo.

Come è noto, Castel Sant’Angelo nasce nel II secolo sul mausoleo dell’imperatore Adriano, da cui deriva appunto la sua altra denominazione di “mole adriana”. Lentamente, già nel corso del Medioevo, l’edificio venne cristianizzato. In particolare l’antico ponte, in un primo momento, servì per il passaggio dei fedeli che si recavano alla Basilica vaticana. Nei primi decenni del Cinquecento, sotto papa Clemente VII, vennero così collocate al suo ingresso le statue di San Pietro e Paolo, ad accogliere i pellegrini che lo attraversavano. Quindi un ponte simbolico, un luogo e un momento allegorico di passaggio che veniva compiuto incontrando i due grandi apostoli, al suo ingresso, ad accogliere in ogni istante chi lo avesse attraversato.

Rospigliosi, divenuto papa, tenne a completare l’opera aggiungendo a quelle due allegorie della Roma cristiana, accogliente e iniziatica, altre dieci statue. Si tratta dei bellissimi dieci angeli del ponte, disegnati dal Bernini, che accompagnano il cammino del pellegrino mentre varca il ponte per recarsi alla Basilica, centro della Roma cattolica. Questi dieci angeli, che assieme alle precedenti due statue degli apostoli compongono complessivamente il numero dodici, reggono tra le braccia i simboli della Passione: la colonna alla quale Cristo fu legato, i flagelli, la corona di spine, il sudario, la veste e i dadi, i chiodi, la croce, il cartiglio, la spugna, la lancia. Ogni angelo reca un’iscrizione latina che commenta solennemente il momento del Calvario.

La Roma di Clemente IX è spesso ricordata per gli angeli del ponte vaticano, di cui egli fu ideatore, promotore e mecenate. Essi sono il simbolo dell’accoglienza cristiana che guida il pellegrino, decorano con allegorie colme di spiritualità il ponte, esso stesso simbolo di un possibile collegamento (tra le due sponde), di un punto di unione, di un luogo di attraversamento e di passaggio, lì dove c’è distacco. Questo era il cristianesimo di Rospigliosi, che non a caso veniva dalla diplomazia, dall’attività di segretario pontificio. Divenuto pontefice, egli ebbe un senso forte del rapporto con chi si trova dall’altra parte. Egli ebbe chiaro il significato più autentico e profondo del ruolo del pontefice il quale appunto – come l’etimologia latina stessa sta ad indicare – è il pontifex colui che fa, che costruisce i ponti (pontem facere). Nei dodici anni di segretariato – misteriosamente il numero dodici torna ancora una volta – egli espletò questa funzione, per poi diventare ciò che evidentemente egli era già nello spirito e nella sua indole cristiana, un vero pontefice.

Un aspetto singolare caratterizza Giulio Rospigliosi, del quale non si può non fare menzione talmente esso ebbe rilievo: la sua passione per l’opera poetica e letteraria, che egli ebbe modo e voglia di sviluppare in ambito musicale nell’intero corso della sua vita. È soltanto in anni recenti, in occasione dei 400 anni dalla nascita, che tornando a studiarne l’opera emerse l’imponente peso che egli ebbe nello sviluppo del melodramma romano nel XVII secolo, riconoscendogli finalmente la capacità e l’impegno profuso nella librettistica italiana dell’epoca.

Tra gli anni Trenta e Quaranta del Seicento, egli produsse alcuni testi per drammi teatrali cantati e messi in musica. La fama di Rospigliosi crebbe in ambito musicale per la scrittura di numerosi melodrammi quali: Sant'Alessio nel 1631; Erminia sul Giordano nel 1633; I Santi Didimo e Teodora nel 1635; Egisto nel 1637; San Bonifazio nel 1638; Genoinda nel 1641; Il palazzo incantato nel 1642; Sant'Eustachio nel 1643.

I testi composti da Rospigliosi non rimasero lettera morta nei loro libretti. Al contrario, furono messi in musica ed eseguiti, grazie, almeno nel periodo iniziale, all’interessamento della famiglia dei Barberini. Essi inaugurarono la stagione operistica del 1631, mettendo in scena il Sant’Alessio di Rospigliosi, orchestrato dalle musiche di Stefano Landi[8], compositore romano di grande fama del primo barocco.

Il Sant’Alessio narra della rinuncia a ogni privilegio sociale e nobiliare compiuta dal protagonista, Alessio, di ritorno a Roma da un pellegrinaggio in Terrasanta. In questo melodramma a trionfare è lo scandalo della santità, l’ascesi spirituale del protagonista e, allo stesso tempo, il tormento creato da tentazioni e inganni da parte dei famigliari, alternando sottilmente comicità e tragicità. L’opera conduce drammaticamente alla morte di Alessio nella quale è visto compiersi il valore grandioso e misterioso dell’umiltà[9]

Era questo il periodo di fioritura del Melodramma che, nato all’inizio di quel secolo, sperimentava un incrocio di recitazione, musica e teatro, e impostava un nuovo genere letterario, oltre che musicale, nella cosiddetta librettistica. Rospigliosi vi prese attivamente parte sviluppando melodrammi di argomento sacro: altre tematiche trattate saranno quella dell’eroismo per fede, della grandezza del martirio e della sua testimonianza, del pentimento e della malvagità della persecuzione, della chiamata da Dio e della devozione che conduce alla santità.

Non quindi un produzione marginale e occasionale, ma densa e metodicamente coltivata, pienamente e coerentemente inserita nella vita religiosa di Rospigliosi; una produzione che egli non abbandonò mai, nonostante pause e arresti verificatisi quando egli entra in prelatura. La sua attività riprese in effetti nella metà degli anni Cinquanta, quando divenne segretario di stato pontificio. L’amore per la letteratura messa in musica e l’impegno per le attività diplomatiche del Santo Padre si combinavano in maniera sorprendente. Ed è così che egli tornò a dedicarsi alla librettistica con i testi intitolati Dal male il bene del 1654; La vita umana  del 1655 (anno della nomina a segretario); Le armi e gli amori del 1656.

La nuova attività librettistica impegna nuovamente Rospigliosi nel melodramma, a Roma, con nuove opere e nuove messe in scena allo sfarzoso teatro dei Barberini alle Quattro fontane. La vita umana, che merita una particolare attenzione perché prodotto nell’anno stesso della nomina a segretario, tratta del valore della conversione nella Chiesa di Roma. Si tratta di un melodramma fantastico-allegorico in cui le parti di donne furono recitate da uomini. Il dramma venne rappresentato in teatro in presenza di Cristina di Svezia[10].

I melodrammi di Rospignoli si arrestano qui, al loro massimo vertice. Il susseguirsi di impegni presso la segreteria e poi il pontificato gli impediscono di dedicarsi ulteriormente. Ma ancora negli anni del pontificato, i suoi melodrammi erano messi in scena nei teatri romani.  Inoltre, il suo interesse per lo sviluppo di quel nuovo genere musicale e letterario non si restrinse ai suoi melodrammi, ma lo vide agire preso il suo papa, Alessandro VII, di cui era cardinale di stato, affinché venisse edificato a Roma un teatro pubblico e stabile. Esso venne edificato nel luogo delle antiche carceri di Tor di Nona, dove il cantiere venne aperto nel 1660[11], per essere infine realizzato, con un meraviglioso affaccio sul lungo Tevere, nel 1670, per essere demolito nel 1888 a causa dei continui straripamenti del fiume.

Claudio Strinati ha recentemente pubblicato un bel saggio sul ruolo della musica nel papato di Rospigliosi.[12] Lungi dal considerarla un aspetto secondario e ludico dell’attività del cardinale segretario e futuro pontefice, la musica e in particolare il melodramma è sembrata anzi denotare la fondamentale ricerca di un nuovo linguaggio, seicentesco, che nella messa in scena musicale potesse trovare nuovi strumenti di divulgazione del messaggio evangelico. La librettistica di Rospigliosi, improntata a temi religiosi, rappresenta in effetti una vera e propria componente dell’opera pastorale del cardinale. Essa si fa veicolo popolare per la diffusione  di temi legati alla santità, alla devozione, all’ispirazione divina, alla conversione. Del melodramma allora Rospigliosi colse davvero la funzione pedagogica, lo strumento sacerdotale che per suggestione musicale e poetica agisse sulla gente.

Si è soliti considerare come l’opera lirica ottocentesca abbia consentito lo sviluppo di un sentimento patriottico che animò il Risorgimento. Il melodramma di argomento sacro ebbe per Rospigliosi una funzione analoga, anticipatrice, che già guardava ai teatri pubblici. Esso non solo nel patriottismo italiano, ma già prima, nella nuova Chiesa della metà del Seicento, offriva nuovi mezzi di comunicazione, di arte “popolare” nella quale il messaggio evangelico avrebbe trovato le sue nuove forme. Rospigliosi davvero fu il librettista della Santa Chiesa, nel senso più alto che questa idea innovatrice poté in quegli anni trovare.

La ritrattistica di Rospigliosi, a tutt’oggi conservatasi, raffigura il cardinale sia nelle sue vesti di segretario sia in quelle di papa, quindi nelle due grandi fasi della sua vita.

Da un punto di vista della documentazione si tratta di illustrazioni di impressionante valore per la capacità che hanno di ritrarre Rospigliosi nel trascorrere degli anni. Lo sguardo, l’attitudine è la medesima, come si può vedere nel confronto delle due immagine che abbiamo qui riprodotto: una rara incisione del Seicento (di autore ignoto) e un celebre dipinto di Carlo Maratta, oggi poco noto, ma ai suoi tempi tra i più acclamati pittori della sua epoca. Gli occhi, in particolare, denotano la medesima umanità e maturità, lo stesso riserbo e allo stesso tempo lo stesso calore. È un uomo che non è cambiato. È forse mutato la sontuosità dell’abito, quindi la luminosità del dipinto, rispetto alla più scarna e povera incisione. Resta tuttavia il segno della sua personalità.

Un dettaglio del dipinto di Maratta è da registrare: la presenza di un libro tenuto stretto nella mano destra, la mano forte, raffigurazione dell’interesse che Rospigliosi ebbe sempre per le Lettere, anche negli anni del pontificato.

Di altro genere è il ritratto marmoreo funebre, che si erge nella Basilica romana di Santa Maria Maggiore, scolpito da Carlo Rainaldi che della Basilica aveva disegnato la suntuosa abside, e noto anche per aver lavorato alle due chiese gemelle di piazza del Popolo. Qui, il gesto benedicente di saluto che la figura rivolge è grandioso, eppure conserva qualcosa di profondamente umano. È un gesto di saluto semplice, la mano rivolta alla maniera in cui gli uomini tra loro si rivolgono quando si incontrano.

Il pontificato di Clemente IX fu breve, di appena tre anni. Ciò che lo aveva reso grande e acclamato, lo aveva allo stesso tempo indebolito. Come scrisse uno storico del Seicento: «oltre la debolezza del corpo, aveva congiunta quella dell’animo» dovuta alla «stanchezza per li negozi finora indefessamente addossatigli» Egli era arrivato al pontificato che era non soltanto avanti negli anni, ma anche stanco, dopo dodici anni di lavoro come segretario. Eletto nel 1667, sarebbe morto nel 1669, affiancato in questo lasso di tempo dall’amico dello “Squadrone volante”, già tante volte nominato in questi due ultimi capitoli,  Decio Azzolino. Di lui e della sua attività di segretario parleremo nelle pagine a seguire.

Don Pino Esposito

 
 

[1] Luciano Osbat, Clemente IX, «Dizionario Bibliografico Italiano», vol. 26 (1982).

[2] Ibidem.

[3] Fondo archivistico “Archivio Rospigliosi Pallavicini”, Vat. Lat. 13261, ff. 230-231.

[4] Gregorio Leti, Conclave fatto per la sede vacante d'Alessandro VII: nel quale fù creato pontefice il cardinale Giulio Rospigliosi, Pistoiese, detto Clemente IX, Roma 1669, p. 45.

[5] Ivi, p. 32.

[6] Ludovico Antonio Muratori, Annali d'Italia dal principio dell'era volgare fino all'anno 1750, vol. 11, parte II, Roma 1754, p. 168.

[7] Ibidem.

[8] Danilo Romei, Profilo biografico di Giulio Rospigliosi, in «Nuovo Rinascimento», 2000, p. 2.

[9] Giulio Rospigliosi, il Sant’Alessio, in Drammi per musica, a cura di Andrea Della Corte, Torino 1958, pp. 199-265.

[10] Alessandro Ademollo, I teatri di Roma nel secolo decimosettimo : memorie sincrone, inedite o non conosciute, di fatti ed artisti teatrali, "librettisti", commediografi e musicisti, cronologicamente ordinate per servire alla storia del teatro italiano, Roma 1888, p. 137.

[11] Ivi, p. 89 e p. 93.

[12] Claudio Strinati, La musica e il papato di Clemente IX Rospigliosi, in Mario Lolli Ghetti (a cura di),  I papi della memoria : la storia di alcuni grandi pontefici che hanno segnato il cammino della Chiesa e dell'umanità, Roma 2012, p. 74 e seguenti.

Don Pino Esposito - Incisione del 1657 di Giulio Rospigliosi, nei primi anni di segretariato Don Pino Esposito - Clemente IX (dipinto di Carlo Maratta) Don Pino Esposito - Monumento sepolcrale (Carlo Rainaldi, Basilica Santa Maria Maggiore, Roma)

Don Pino Esposito Foto di Don Pino Esposito Parroco delle Parrocchie della SS.Trinità in San Donato di Ninea, di Santa Rosalia, e del SS. Salvatore in Policastrello
       
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