Lorenzo Magalotti (1624-1628)
È per una nota di colore, che la figura di Magalotti viene spesso ricordata: letteralmente di colore. Era usanza, all’epoca, ancora all’inizio del Seicento, che le carrozze delle alte cariche ecclesiastiche potessero essere distinte dalle altre in base a particolari fiocchi che abbellivano i cavalli che le traevano. Magalotti è il primo a far sfoggiare fiocchi non più di colore nero, come era usanza fino ad allora, ma rosso, a partire dal 1630. La notizia ci perviene, così precisa e dettagliata, da una pagina dei diari dell’erudita romano Giacinto Gigli[1]. È forse una nota frivola, ma anch’essa fa parte della storia della Chiesa e nei suoi aspetti più umani. Magalotti è uno dei promotori dell’estetica del rosso cardinalizio, che così vistosamente e con grande suggestione, si è impresso nell’immaginario popolare.
Lorenzo Magalotti, cognato del pontefice Urbano VIII, diventa Segretario di Stato di un papa della casata dei Barberini. Siamo ancora nell’epoca del nepotismo che regola gli incarichi: la sorella di Magalotti, Costanza, era in effetti la moglie di Carlo Barberini, fratello di sua Santità. Altri legami di famiglia rendono Magalotti una figura di eccezione, nonostante egli non sia appartenuto ad una grande casata. In effetti non è affatto trascurabile, ma anzi colpisce alquanto la parentela instaurata dalla sorella di Magalotti con un Machiavelli, creando un sorprendente nesso genealogico tra i Barberini e la famiglia dell’autore del celeberrimo e anticlericale Il Principe. Da questo, così come da altri punti di vista, Magalotti si rivelò una figura di mediazione.
I primi grandi passi compiuti da Magalotti nella carriera ecclesiastica li compie già grazie al papa precedente, Gregorio XV, che lo nominò commissario generale dello stato pontificio, quindi segretario della Sagra Congregazione della Consulta della Curia romana, un istituto oggi soppresso, sorto alla fine del Cinquecento per sciogliere controversie giurisdizionali e amministrative. Magalotti vi entrò già sotto il pontificato di Gregorio XV, apprezzato dal pontefice e dal cardinal nipote Ludovico Ludovisi.
Fu infine Urbano VIII ad ammetterlo – per citare il dottissimo Dizionario di Gaetano Moroni Romano – «all’intimo segreto degli affari più rilevanti e gelosi del pontificato»[2] almeno dal 1624 al 1628.
Oltre che per le sue note di colore, Lorenzo è ricordato per il suo spirito caritatevole e compassionevole. Elevato ai massimi ranghi della Chiesa romana, non fu a Roma che egli trascorse quegli anni, ma a Ferrara, e in una Ferrara colpita dal morbo della peste e dalla carestia, nell’anno 1628. L’epidemia è descritta in alcune pagine di indimenticabile tenore dei Promessi Sposi. Come è noto, Manzoni volle menzionare in quelle stesse pagine l’operato del papa Urbano VIII, che in effetti reggeva la Chiesa negli anni dei fatti di cui si narra.
L’immagine più bella, che Magalotti ci ha lasciato, come vero esempio di vita cristiana, è quella del cardinale che lascia Roma per recarsi in una città sofferente. Mentre la peste e la fame affliggeva Ferrara, il cardinale spiccò per la sua generosità, cercando in ogni modo di portare conforto e sollievo. Il cardinale lasciava le cure della Segreteria per dedicarsi alla gente, spostandosi da città a città, nel territorio, per essere vicino, volendo vedere con i suoi occhi e sentire da sé per intervenire e rimediare. A fronte della Chiesa sfarzosa dei Barberini, il porporato di Magalotti splende per la sua umiltà, poiché da Roma seppe tenersi lontano e restare tra i poveri e i sofferenti.
Molti sono i motivi che spinsero Magalotti a restare a Ferrara, lontano da Roma, dai quali si potrà desumere non soltanto la complessità dei meccanismi interni alla Chiesa, ma anche il carattere mite ed umile del nuovo Segretario. Si deve sapere che Magalotti fu scelto dai Barberini, la potente casata giunta alla carica pontificia, per far da consigliere al nipote del papa, tale Francesco Barberini che nel 1623 aveva ricevuto la porpora. Ecco che Magalotti fiancheggiava il giovane cardinale nipote e lo guidava con la sua esperienza. Ma è con prudenza, oltre che per il bene della Chiesa, che egli intorno al 1928 si mise e si tenne in disparte, anche in considerazione dalla pressante presenza, non priva di arroganza e inesperienza, dimostrata da un secondo cardinale nipote dei Barberini, Antonio, giovanissimo, ventenne, fratello di Francesco. Un uomo quindi, Magalotti, che seppe fare molti passi avanti, tanto quanto, al momento opportuno, i giusti passi indietro. In Magalotti lo spirito di rinuncia si integra allo spirito operoso, sempre a favore, in un verso e nell’altro, dell’unità della Chiesa.
Fu un periodo turbolento quello della metà del Seicento in cui uomini come Magalotti, con spirito sacerdotale, seppero redimere il pontificato, scioglierne le tensioni che si accumulavano ai vertici. Il nepotismo stava mettendo a dura prova gli equilibri della Chiesa. I giochi di potere prevalevano, i rapporti di sangue favorivano, il sangue si sostituiva allo spirito. È qui che la Chiesa, la Chiesa iniziatica, quella che spalanca le sue porte e lascia accedere tutti ai suoi misteri, non per diritto di nascita, ma per conversione dello spirito, cominciava a perdere la sua via. I cardinali nipoti della casata dei Barberini stavano rivaleggiando, mentre quelli rispettivi dei Borghese e dei Ludovisi avevano invece tra loro collaborato ad una medesima visione cristiana della bellezza romana. Magalotti impedì che la situazione degenerasse lasciando Roma, che trasudava tensioni, togliendosi drasticamente da ogni possibile altra deleteria rivalità.
Si può anche riflettere su quanto, agli occhi sensibili di Magalotti, in quella Ferrara sofferente, dove decise di recarsi, potesse proiettarsi l’immagine stessa altrettanto sofferente di Roma, quanto in quelle afflizioni e quei disordini egli potesse rivedere, sotto altre forme, nella Ferrara colpita dalla carestia, le afflizioni e i disordini della sede vaticana. Ferrara diventava allora un modello di città cristiana che avrebbe potuto risplendere e forse dare un po’ della sua luce a Roma.
Magalotti non fu un uomo particolarmente sensibile all’arte. Non fu un grande mecenate, non fu un accanito collezionista, egli fu una figura di altro tipo, più ordinaria, rispetto ai suoi due predecessori Scipione Borghese e Ludovico Ludovisi. Il ritratto stesso, che si può guardare tra le tavole inserite in questo capitolo, lo raffigura con grande semplicità, un’immagine puramente raffigurativa, priva di simbolismi e di tratti d’autore. L’incisione venne realizzata da Leoni Ottavio che, per l’ennesima volta, si conferma ritrattista dei grandi uomini di Chiesa.
Non mancarono comunque occasioni nelle quali Magalotti si fece promotore di opere d’arte, ma con scopi specifici e per specifiche celebrazioni. Ecco quindi che con devozione fece dipingere, da alcuni rinomati artisti dell’epoca, Tassi, Berrettini da Cortona, Lanfranco, un ciclo di 9 tele che ritraevano – ahimè le quadri sono andati perduti e la loro descrizione ci perviene da resoconti e fonti indirette – scene di cerimonie pontificie in onore di Urbano VIII. È l’arte, qui, a servizio della sua devozione, un’arte sacra per celebrare in senso quasi liturgico il grande pontefice. E così rimase, nella mente del Segretario di stato pontificio, questo nesso tra arte e liturgia.
Non si può dimenticare semmai il particolare interesse che Magalotti dimostrò per il noto pittore Guercino, anche qui ingaggiato sempre per opere di arte sacra. L’opera più nota è il Martirio di San Lorenzo voluto da Magalotti, oggi nella Cattedrale di Ferrara.
Nel 1625, alla morte del fratello, Magalotti, incaricò Bernini di disegnare il progetto del grandioso catafalco funebre per la chiesa romana di San Giovanni dei Fiorentini[3]. L’opera non fu da tutti apprezzata. La storica Elena Fumagalli, in un saggio di alcuni anni fa, fu irriverente nel definirla «soverchiamente dispendiosa et indecente per un personaggio ordinario»[4]; né coglie il valore liturgico della grande opera, né ha sensibilità per il dolore personale del Segretario, che con quel gesto elaborava il suo lutto nelle forme più belle dell’arte cristiana, né ancora a mio avviso sa riconoscere la grandezza di un uomo che seppe restare ordinario, mentre la Chiesa dei Barberini soverchiamente ostentava personaggi di straordinarie origini. Ma veramente Magalotti fu un uomo ordinario?
Restando ancora nel campo dell’arte, possiamo guardare attraverso gli occhi di un pontefice, di Urbano VIII, per vedere chi fu veramente Magalotti. Fatto eccezionale fu l’attenzione che il pontefice dei Barberini ebbe per il suo Segretario. Questa attenzione, questa sua viva e ribadita stima venne espressa in un componimento poetico, un carme in latino che egli volle dedicare all’amico Lorenzo Magalotti il quale, anche solo per aver ricevuto questo dono poetico, tanto ordinario non poteva essere. Il componinento è altresì noto, perché ricorda nei suoi versi la bellezza dei Castelli Romani, la zona a Sud Est di Roma, e in particolare della cittadina di Castel Gandolfo che sotto Urbano XVIII iniziò a essere residenza estiva del pontefice e che in tempi recentissimi fu sede temporanea del papa emerito Benedetto XV.
Il componimento poetico costituisce un documento prezioso che testimonia la statura del Magalotti. Esso costituisce un invito che il grande Barberini, ancora cardinale, gli rivolgeva ad andare a villeggiare a Castel Gandolfo. Il carma non rimase inedito, ma anzi venne pubblicato nel 1935, quando Barberini era già divenuto papa, Maphaei S. R. E. Card. Barberini , nunc Vrbani. Poemata [5]. Ed è un documento interessante anche perché illustra la fase proco precedente la ristrutturazione dell’impianto cittadino centrale, della villa che era stata dei Visconti, che avverrà una volta divenuto papa, dopo aver sperimentato e lodato la salubrità del luogo.
Se a Magalotti piacerà abbandonare i tristi affanni
dove il lago Albano si spande in cristalline onde
il villaggio di Gandolfo, parte più alta dell'antica Alba,
accoglierà noi in una modesta dimora[6]
Certamente Magalotti non fu un uomo ordinario. Uno dei biografi del Segretario, Stefano Tabacchi, fece notare, qualche tempo fa, come a fronte dell’intensa attività diplomatica che vide il pontefice e il suo segretario interagire in maniera costante, la documentazione scritta rimasta risulta scarsa e lacunosa. Questo curioso fatto è stato interpretato da Tabacchi non come una perdita di documenti, ma come una prova che la relazione tra Urbano VIII e Magalotti sia in effetti avvenuta principalmente a viva voce.[7] Quindi non lettere, documenti, ma lunghe conversazioni e continui rapporti diretti. Questa oralità del loro rapporto testimonia, in maniera lampante, la particolare vicinanza che Magalotti ebbe con il pontefice. Fu un uomo vicino al papa e con ciò raggiunse una straordinaria vicinanza con Sua Santità, che certamente ne fanno un uomo prezioso, una pezzo insostituibile della storia del pontificato dei Barberini.
Scrive ancora Tabacchi, che si sofferma sulle relazioni con Urbano VIII: «rappresentò» almeno in un primo momento, nella fase della sua attività a Roma, «il tramite indispensabile con il pontefice»[8]. Anche nel corso delle negoziazioni della Santa Sede con la Spagna e la Francia, Magalotti fu un intermediario insostituibile e un punto di rifermento e di appoggio del papa che, soltanto dopo vive pressioni da parte di Magalotti stesso, si decise di accordargli la libertà di lasciare Roma e la carica di Segretario. Per il suo equilibrio, Magalotti fu anzi un uomo prezioso della Chiesa, per la sua capacità di espletare la carica di Segretario di Stato affianco a quella assunta da Francesco Barberini cardinal nipote. I due sorreggevano il papa insieme, non competendo e gareggiando, ma condividendo la responsabilità e agendo, come è noto, di concerto, perché Sua Santità potesse avere due aiutanti e perché l’uno potesse educare l’altro e consigliarlo.
Da un punto di vista della storia della Segreteria di Stato pontificio, possiamo dire che l’epoca di Magalotti risplende per l’equilibrio che egli seppe raggiungere tra le due tradizioni: l’una, del più profondo Basso Medioevo, quella del nepotismo che arriva fino al Seicento, che vede i cardinal nipoti sorreggere il Papa, e l’altra, invece moderna, della metà del Cinquecento, dei cosiddetti Segretari di Stato, nati per contrastare i cardinal nipoti, veri Ministri del Papa. Ecco, Magalotti rappresenta un nuovo modello, in cui al contrasto si sostituisce l’intesa, l’armonia, il dialogo, perché davvero del cardinal nipote Francesco Barberini Magalotti fu amico, almeno finché l’intricata storia della Chiesa glielo permise, prima della partenza per Ferrara. Al quel punto, Francesco rimase solo a fiancheggiare il Santo Padre, mentre Magalotti per altre vie proseguiva la sua missione cristiana. Restava nondimeno un confidente del Papa, con il quale intrattenne a distanza un fitto scambio epistolare che, lettera dopo lettera, tesserà e consoliderà un legame di fiducia.
È nella città di Ferrara che l’attività pastorale di Magalotti sempre più si rivolgeva alla gente. Ed è a questo periodo che viene spontaneo portare l’attenzione, per cogliere e ricordare i gesti migliori, i più umili e allo stesso tempo i più elevati di Magalotti, non più amministratore di uno stato, ma pastore del suo gregge, non più abile diplomatico ma compassionevole sacerdote.
L’abilità amministrativa, maturata a Roma, fece di Magalotti una figura chiave per stabilire e far funzionare una macchina organizzativa e assistenziale che a Ferrara fu fondamentale per contenere la diffusione della peste del 1630. Quasi viene da pensare, se le vie del Signore sono misteriose e davvero lo sono, che essere stato posto in una delle più efficienti macchine politiche dell’Europa dell’epoca, a Roma, sia stato per prepararlo, per formarlo, per educarlo al rigore logistico e alla prontezza d’azione. L’esperienza come Segretario di Stato doveva predisporlo a quello, a saper gestire una Ferrara, con la sua diocesi, in preda a disordini, a cui serviva l’energia di chi era avvezzo alle grandi imprese e alla grande politica.
Ma forse non è neanche questa grande macchina assistenziale, che egli seppe allestire velocemente e con destrezza, a essere la parte più suggestiva del nuovo percorso di vita nel quale Magalotti ebbe la grazia di essere improvvisamente gettato. A suggestionare è il modo i cui Magalotti si fece pastore del suo gregge e non uomo di Palazzo. Egli non rimase a un tavolo a pianificare, a gestire, a calcolare. Egli scese tra la gente, immagine toccante che incredibilmente precorre i bagni di folla dei pontefici più moderni.
Si narra di come Magalotti, in maniera assidua, visitasse in quegli anni la sua diocesi, e quanto volesse da sé vedere e udire quanto accadeva. Una bella narrazione settecentesca di quegli eventi, ci viene per esempio da Lorenzo Barotti, in una sua opera dedicata ai Vescovi di Ferrara. Ivi, Barotti dedica alcune pagine al grande operato di Magalotti di quegli anni così difficili.
Barotti ricorda la «lacrimevole strage di uomini in tutte le ville [città] e terre» che Magalotti andava visitando in un «tratto di via non breve»[9]. Il racconto usa un lessico cristiano e coglie così le sfumature spirituali che quei gesti di soccorso implicavano: «Ora il caritatevole Pastore non dimenticò quella porzione del suo gregge dal doppio flagello [la peste e la carestia] miserabilmente percossa e afflitta; e ne consolò, per quando fu da lui, i bisogni del corpo e dell’anima con opportuni soccorsi»[10].
Magalotti è “Pastore” e si prende cura del suo “gregge” e arriva a loro per curare la fame, la peste, le angosce e i peccati. La sua è una cura del corpo e dell’anima allo stesso tempo. La sua grande opera rimase indelebile nella storia, come nella pieta; letteralmente nella pietra, quando si legge nella vòlta della Cattedrale di Ferrara il ringraziamento del popolo al «card. Magalottus […]. Anno 1637». È così che Ferrara ricorda chi appunto si impegnò nel restauro delle chiese e per la ripresa della città.
Lo spessore spirituale e umano della personalità di Magalotti è ricordato ancora in anni recenti nello studio di Lorenzo Paliotto sulla Ferrara del Seicento, segno di quanto la storia di Magalotti abbia lasciato una traccia indelebile della storia della città. Paliotto scrive del modo «veramente umano» con il quale Magalotti si dedicava alla città, alle sue problematiche sociali, senza trascurare le problematiche spirituali[11]. Il potere amministrativo della città di Ferrara esaminato anche nella sua quotidianità fa emergere il governo pastorale, la buona guida che Magalotti volle sempre offrire. Ciò che viene ricordato è la sensibilità di Magalotti, il quale nella crisi della città non vide soltanto la calamità finanziaria e sanitaria, ma prima ancora lo smarrimento spirituale. Il messaggio cristiano che egli continuava a profondere era ai suoi occhi la vera cura, la più decisiva e la sola che avrebbe salvato la città. Non un mero amministratore, ma un pastore che raggiungeva i fedeli, che avvertiva la necessità della preghiera, che testimoniava il valore del cammino della fede.
Negli anni passati a Ferrara, Magalotti continuava a interrogarsi sui misteri della conversione. Da alcuni documenti d’epoca, si può risalire ad alcune sue massime. Di lui va ricordato una bellissima frase, vera sintesi dello spirito pastorale negli anni ferraresi; Magalotti usava dire: “Poiché all’amante non basta guardare una sola volta: la forza dell’amore, infatti, accresce l’intenzione di ricercare”[12]. Questa frase tanto bella quanto semplice è una definizione dell’amore, non soltanto umano ma anche e soprattutto religioso e cristiano. Non è il gesto occasionale, la passione travolgente di un momento a indicare il vero amore, ma è la forza che lo anima. L’amore è amore cristiano quando esso dà forza. L’amore vero non sta nel guardare la cosa amata, ma nel ricercarla. Non è il fatto di vedere la cosa amata ad appagare. Anzi l’amore cristiano non è mai appagato per definizione, poiché sta anzi e proprio nella ricerca e nel proposito di cercare nuovamente. Questo spiega in Magalotti la continua ricerca dell’opera di bene e quanto ad essa corrispondesse il senso dell’amore cristiano.
Nel 1637, l’anno della sua morte, Magalotti commissiona a Guercino, il valente pittore del Barocco cristiano, una tela raffigurate il grandioso tema biblico di Ester e Assuero[13]. Si tratta della storia antico-testamentaria di Ester, il cui significato allegorico è ben espresso nel nome stesso che in ebraico antico significa “io mi nasconderò”. È una storia ben nota, ma che non è superfluo ricordare per sommi capi e per l’insegnamento morale e religioso che esso contiene e nel quale, in qualche modo, si rispecchia l’insegnamento di Magalotti stesso.
Come raccontano le Sacre Scritture, la bellissima ebrea Ester accetta di sposare Assuero, il re persiano, allo scopo di salvare il proprio popolo. In questa semplice trama, si intrecciano fili narrativi assai diversi e complessi che tessono una storia di salvezza e di sacrificio. In effetti, divenuta regina, Ester riesce ad intercedere per scongiurare un complotto del consigliere di Assuero, Aman, determinato a sterminare il popolo ebraico. Il quadro raffigura l’incontro di Ester e del re Assuero: lei, sfinita, che si abbandona in segno di svenimento, e il re che la soccorre: un’immagine di amore che prefigura la salvezza del popolo.
Non è qui il caso di entrare nello specifico storico di una vicenda che riconduce al V secolo a. C., quanto si tratta invece di percepire il significato simbolico e spirituale del sacrificio per la salvezza del popolo. Il dipinto, ultimato soltanto dopo la morte di Magalotti, rappresenta forse il suo testamento spirituale. Ester è, come lo fu anche Magalotti, una figura salvifica e di sacrificio, di cui è emblema il simbolico digiuno – nella storia biblica, il digiuno di Ester per richiamare la compassione del re persiano – segno di purificazione che rafforza l’animo. Così anche in Magalotti ci furono privazioni che purificarono la Chiesa e la salvarono dai complotti politici e dalle trame di corte. L’opera fu ultimata soltanto nel 1639, dopo la morte di Magalotti.
La morte di Magalotti è forse il momento più opaco della vita del cardinale. Per nove anni era rimasto a Ferrara dove per un verso aveva smarrito la strada di Roma e per un altro verso aveva ritrovato quella dello spirito, del grande Pastore. E lì che Magalotti ad alcuni sembrò perduto, ad altri, sembrò ritrovarsi. Forse l’uno e l’altro dei due animi hanno segnato quell’ultimo decennio della vita dell’ex Segretario di Stato pontificio. Certamente le prove alle quali Dio aveva sottoposto Magalotti lo avevano affaticato, ma di quella stessa fatica che, nella bella immagine lasciataci nel marmo da Bernini, di cui abbiamo parlato in un precedente capitolo, aveva segnato anche gli occhi stanchi eppure così vivi di Scipione Borghese. La stanchezza degli occhi, lo sguardo per quanto affaticato che ancora cerca e non smette mai di “cercare”, è un tratto che accomuna questi grandi uomini di Chiesa, così vicini come nessun altro al Santo Padre, pronti a sorreggerlo nel suo gravoso e santo ufficio, ciascuno in maniera così diversa, ma tutti in maniera così decisiva, umana e più che umana.
Le male lingue narrano che Magalotti morì di una strana febbre, dovuta ad alcuni gocce di “spirito di vetriolo” prese all’insaputa del Medico[14]. Una notizia irriverente oltre che ingiusta e infondata che illustra quanto, fino all’ultimo, del percorso spirituale compiuto da Magalotti, per lui non fu mai semplice.
E ancora altri strani e irriverenti giochi del destino lo avrebbero seguito fino nella tomba, dove tutt’oggi il suo corpo giace e si riposa, nella città che lui rese grande e nella quale ritrovò il suo animo più profondamente cristiano. Come è noto, il corpo di Magalotti, dopo le esequie, fu deposto nella cattedrale di Ferrara, davanti all’altare di S. Lorenzo con un’iscrizione, una lapide onorifica che ne commemora il nome che aveva in comune con il santo.
Ora, con il passare del tempo, l’antica Chiesa ebbe bisogno di alcuni interventi di restauro e di abbellimento. Tra i più importanti, furono eseguiti dei lavori di pavimentazione, che obbligarono a smantellare e liberare una vasta area in maniera da consentire la messa in opera del nuovo lastricato. Venne quindi spostata, in quella occasione, la lapide di Magalotti, con l’intenzione, a lavori ultimati, di ricollocarla dov’era prima. Essa venne quindi, sì spostata, ma poi per un incredibile sbaglio riposata nel punto sbagliato, sarebbe a dire accostata non alla corrispettiva tomba del fu Segretario, ma ad un’altra, anch’essa collocata nella medesima chiesa, del card. Francesco Maria Machiavelli, nipote di Magalotti deceduto, anch’egli a Ferrara, nel 1653. Evidentemente, ma allo stesso tempo incredibilmente, la confusione sorse perché la lapide scardinata recava soltanto il nome “Lorenzo” e non il cognome ed era quindi scarsamente identificativa.
Ancora una volta a Magalotti non veniva riconosciuto, né debitamente onorato per un’infelice confusione di lapidi tombali. La grandezza di Magalotti davvero non sta e non è mai stata nella celebrazione del suo nome, ma nel bene che le sue opere hanno recato.
[1] Pietro Pianton, Enciclopedia ecclesiatica, vol. II, Venezia 1855, p. 417.
[2] Gaetano Moroni, Dizionario Di Erudizione Storico-Ecclesiastica Da S. Pietro Sino Ai Nostri, vol. XLI, Venezia 1856, p. 233.
[3] Elena Fumagalli - Il disegno è stato del cavaliere Bernino: il catafalco di Carlo Magalotti, in «Rivista Paragone Arte», n° 24-25 (1999): numero dedicato a Gian Lorenzo Bernini.
[4] Ibidem.
[5] Maphaei s.r.e. card. Barberini nunc Vrbani. Poemata, Antuerpiæ : ex officina Plantininana Balthasaris Moreti, 1634
[6] Ibidem. Si , Magalotte , placet tristes deponere curas / Qua Lacus Albanus vitreis diffunditur undis / Gandulphi Tagus , veteris pars altior Alhae / Excipiet lare nos modico».
[7] Stefano Tabacchi, Magalotti, Lorenzo, in «Dizionario Biografico degli Italiani», vol. 67 (2006).
[8] Ivi, p. 298.
[9] Lorenzo Barotti, Serie di vescovi ed arcivescovi di Ferrara, Ferrara 1781, p. 125.
[10] Ibidem.
[11] Lorenzo Paliotto, Ferrara nel Seicento. Quotidianità tra potere legatizio e governo pastoriale. Parte seconda, Ferrara 2010, p. 499.
[12] Lorenzo Paliotto, Ferrara nel Seicento, cit., p. 500.
[13] AAVV, Guercino – La luce del Barocco, Roma 2015, p. VIII.
[14] Lorenzo Barotti, Serie di vescovi ed arcivescovi di Ferrara, ivi, p. 126.