Scipione Caffarelli Borghese (1605-1621)
Nato nell’arroccata cittadina di Artena, nei pressi di Roma, della quale diventerà signore, Scipione venne alla luce, come si suol dire, sotto i migliori auspici.
Figlio della sorella di papa Paolo V, della potente famiglia Borghese, fu educato ai più alti livelli della teologia e delle materie giuridiche, presso il Collegio Romano e l’Università di Perugia. Così anche nelle arti, non solo negli studi, egli eccelse in qualità di mecenate, circondandosi dei migliori artisti da Caravaggio a Bernini. Il nome di Scipione, come è noto, entra con forza nella storia della città di Roma e la segna profondamente. Quando, ancora oggi, si guardano i grandiosi giardini di Villa Borghese si ricorda il suo nome e l’instancabile operosità con la quale egli andò alla ricerca del bello. Fu lui a far circondare di giardini e fontane il palazzo museale, il fulcro di una preziosa e vasta collezione di opere di arte, scultoree e pittoriche, lentamente e scrupolosamente raccolta per essere aperta alla pubblica visita.
Il progetto della grande Villa Borghese[1], in maniera ostinata e vigile perseguito da Scipione, inizia nel 1605. La data è significativa. Nello stesso anno, Scipione era elevato al rango cardinalizio. Entra in seno alla Curia romana, quindi sorregge il pontefice nel governo della Chiesa e dei fedeli. Allo stesso tempo, sorregge i grandi artisti dell’Europa cristiana. Alla cura sacerdotale affianca la cura del bello, dell’arte.
La collezione Borghese rappresentò per la sua epoca un’impresa senza precedenti, inarrivabile. Fino alla fine del Settecento essa rimase la più vasta e ricca raccolta d’arte in Europa. Il concetto stesso di mecenate fu rinnovato, sostituendosi ad esso quello del collezionista d’arte.
Nella sua vorace raccolta, Scipione acquisisce – se è possibile fare anche un solo esempio – uno dei simboli del Rinascimento pittorico italiano, L’amor sacro e l’amor profano di Tiziano (1515), in cui le figure umane sono protagoniste dell’universo. Per non parlare del grande pittore seducente della realtà, Caravaggio, di cui la Galleria raccoglierà la collezione più vasta. L’idea stessa del Palazzo museale, non come museo, ma come casa, con il suo giardino e le sue stanze, sono anche qui aspetti di una visione accogliente, ospitale.
Una vicenda personale, di rara intensità, lega Scipione a uno dei più celebri e struggenti dipinti della collezione: Davide con la testa di Golia (1610). La tela donata da Caravaggio a Scipione, all’epoca Ministro della Giustizia pontificia, rappresenta e testimonia un cupo appello del pittore per avere la grazia per un assassinio commesso. Nel dipinto, la lama reca, come è noto, l’incisione del motto agostiniano “Humilitas Occidit Superbiam” contenuto nell’acronimo “H-AS OS”. Il quadro, l’ultimo quadro di Caravaggio, che a breve morirà stremato e tormentato, è un’opera di espiazione e di perdono cristiano. La grazia accordata da Scipione raggiungerà Caravaggio, in maniera assai significativa e toccante, proprio al momento della sua morte[2], rappresentando una doppia liberazione, dai peccati e dalla vita terrena. Caravaggio morì spossato e febbricitante a Porto Ercole, in Toscana, in una calda estate, mentre si allontanava da Roma dove Scipione avrebbe ricevuto il quadro.
È forse con troppa superficialità, che oggi la moltitudine di turisti, romani e non romani, affollano il celebre museo della Villa, fotografano quelle collezioni e acclamano la magnificenza dell’arte stessa di quei giardini senza coglierne il valore spirituale che Scipione volle imprimervi. Cura delle anime e cura del bello sono due aspetti, due fili intrecciati della medesima trama che scorrono e si intrecciano nella vita e nelle opere di Scipione Borghese.
Scriveva Pastor, uno storico molte volte citato negli studi sulle genealogie papali, che nessuna altra famiglia più dei Borghese ha lasciato testimonianza di sé nella costruzione di chiese, cappelle, fontane, giardini, strade[3]. Ma potremmo dire anche, allora e soprattutto, che nessuno più dei Borghese ha fatto raggiungere alla Cristianità di Roma la sua bellezza estetica.
La bellezza del cristianesimo: questo è uno dei grandi temi da ricordare dell'epoca della chiesa di Scipione Borghese. Della culla della cristianità occidentale, egli ne esalta l'estetica non come superficiale gioco che appaga i sensi, la vista e le emozioni, ma come espressione di un cristianesimo che si avvicina alla gente, che fa splendere sotto gli occhi di tutti gli uomini, la bellezza, l'arte cristiana, per i cristiani e dei cristiani, con il suo messaggio vibrante di salvezza.
Allora, passeggiando per le strade di Roma, bisogna sapere ritrovare le tracce di Scipione Borghese, risalire alla sua ricerca del bello che affianco a papa Paolo V, Camillo Borghese, seppe intraprendere, in qualità di cardinale segretario di stato pontificio.
Spesso della famiglia Borghese si ricorda il nepotismo, puro e semplice, quasi brutale. Scipione in effetti è un cardinalis nepos e riceve la nomina cardinalizia alla giovane età di 27 anni. Un prezioso documento del 1612 redatto da un ambasciatore veneto alla Corte di Roma, fa trapelare aspetti umani di quella nomina e quello che è stato chiamato il «cuore irrequieto dei papi»:
Questo principe è carissimo ed amatissimo dal Pontefice e nella persona sua sono riposte tutte le speranze della grandezza della casa Borghese. Il cardinale […] ha nell’apparenza tutta l’autorità ed onori che sogliono avere li nepoti dei Pontefici, perché tutti gli ambasciatori dopo l’udienza vanno a lui e gli comunicano ogni trattazione[4].
Con Scipione rientra in vigore nel Seicento la tradizione medievale che giustificava il conferimento del titolo di cardinale in base al rapporto di parentela con il pontefice. Ma se qualcosa di antico torna, qualcosa di nuovo comincia. A legare lo zio al pontefice, non è un mero rapporto di famiglia, ma una visione condivisa della bellezza e dell'estetica della Roma cattolica. Entrambi saranno attivissimi nel rinnovamento e nell’abbellimento artistico della città eterna.
Se il nome di Scipione riecheggia nei giardini di Villa Borghese, Paolo V ha letteralmente segnato il suo nome sulla nuova facciata della basilica di San Pietro («IN HONOREM PRINCIPIS APOST(olis) PAVLVS V BVRGHESIVS ROMANVS PONT(ifex) MAX(imus) AN(no) MDCXII PONT(ificatus) VII (hoc fecit)»), opera di Carlo Maderno, che modifica il preesistente abside michelangiolesco. Sul nepotismo sovrasta allora il mecenatismo: un doppio rapporto, zio e nipote, papa e segretario di stato pontificio, che renderanno bella e cristiana la Roma barocca.
Nelle più imponenti opere di abbellimento della Roma dei primi decenni del Seicento, Scipione Borghese «ebbe in prevalenza a coadiuvare o a integrare le scelte e l’opera dello zio»[5]. La storia del papa e del nipote borghese, del pontefice e del suo segretario, tra le trame di corte e la intricata diplomazia dell’epoca, è altresì una storia di bellezza. È un esempio di vita dedicata alla glorificazione del bello come valore cristiano, come tratto di una Roma ospitale e meravigliosa che mostra in questo suo splendore il miracolo e lo spettacolo stesso del cristianesimo che ostenta, tra la gente, nelle strade e nelle piazze, nella luce dell’arte, la luce del vero. È il Cristianesimo che seduce, commuove, travolge.
Se nella Chiesa dei Borghese, se nell’assistenza prestata da Scipione allo zio pontefice, la Roma cristiana può forse aver smarrito qualcosa del senso spirituale della povertà, allo stesso tempo ha acquisito nell’arte uno strumento pastorale tra i più preziosi. È la Chiesa che parla alla gente andando oltre le parole. È la Chiesa che emoziona per la sua bellezza. È forse questa, che il Segretario di Stato realizza sotto il pontificato di Paolo V, una teologia dei sensi, un parlare di Dio attraverso l’arte, alla ricerca delle forme del bello che sono le forme di Dio. Non si può non cogliere nello sviluppo dell’arte barocca una componente, tra le più rilevanti, dell’attività sacerdotale dei due Borghese.
Non solo nel campo dell’arte, ma anche nel campo sociale l’operato di Scipione eccelle per la sua capacità di ascoltare con cuore sacerdotale i bisogni spirituali della gente. Non è nella cruda cronistoria che si potrà mai cogliere il senso profondo del suo operato, non nei meri aspetti temporali della diplomazia pontificia dell’epoca, ma oltre questi. È nell’arte, così come anche nel sociale, che il segretario di Stato e il suo papa seppero e vollero influire in un’opera di redenzione che ha lasciato il segno, che ha aperto nuove strade, che ha indicato nuove vie.
Non si può dimenticare come la Chiesa di Scipione Borghese si collochi nell’epoca della grande espansione missionaria cattolica in India, nelle Americhe, in Cina. È anche qui, in questa grande opera di redenzione dell’umanità, dei portatori della buona novella, di un messaggio di salvezza da far risuonare ai confini del mondo, che la Chiesa cerca, un volta di più, nuovi linguaggi per arrivare alla gente.
Come è noto, Scipione viene incaricato da Paolo V di prendersi cura delle missioni cattoliche in Persia e della loro protezione. In un momento, balenò persino l’idea, poi abbandonata, di costituire una grande armata cristiana in funzione anti-ottomana. Ma non fu questa l’unica impresa nella quale Scipione fu coinvolto e certamente essa non fu la più rappresentativa. È da ricordare invece e ancor più da capire, sotto il papato di Paolo V, la promozione dell’insegnamento dell’arabo e del persiano nei conventi romani per favorire un contatto dei missionari cattolici con la popolazione locale (bolla pontificia Apostolicae servitutis onere, 31 luglio 1610).
È nel 1615 che, sotto il pontificato dei Borghese, la Chiesa romana autorizza e favorisce una nuova azione missionaria di conversione, prevedendo e permettendo che la messa venisse celebrata usando il linguaggio dei nativi locali. Certamente un grandioso passo compiuto dalla Chiesa che si avvicina ai popoli, che vuole parlare la loro lingua. Più esattamente è il 27 giugno 1615 che Paolo V promulga il breve pontificio Romanae Sedis Antistes[6] che sintetizza, conferma e sancisce quanto dibattuto nei mesi precedenti presso il Palazzo Apostolico del Vaticano. È in presenza del papa e del suo segretario che fu redatto un decreto che concedesse ai sacerdoti cinesi non solo di celebrare la messa e di recitare le ore canoniche, ma anche e soprattutto di amministrare i sacramenti e di svolgere le funzioni sacramentali nella lingua cinese[7].
La Chiesa di Scipione Borghese è una Chiesa che cerca nuovi linguaggi. È affascinante notare questa doppia ricerca. Per un verso nella Roma, culla del cattolicesimo, egli promosse il linguaggio del bello, dell’arte, dell’estetica. Per un altro verso, egli favorì il linguaggio del popolo e per il popolo, segnatamente il linguaggio cinese, per parlare di Cristianesimo. I borghese, lo zio e il nipote, il papa e il segretario, rinnovano la prassi ecclesiale nella cura delle anime, la missione cristiana e la pratica del ministero. La Chiesa rinnova il suo linguaggio e questo rinnovamento, in campo artistico in seno a Roma, in campo sociale in seno al Nuovo Mondo, segna una nuova conduzione spirituale della comunità cristiana.
La messa in cinese, tra i grandi eventi promossi nel 1615 sotto il pontificato dei Borghese, è il segno di una Chiesa che si apre, che sviluppa una scienza della comunicazione pastorale, che riflette su come comunicare il messaggio evangelico, che vuole essere vista nell’arte e capita nelle sue parole, che instaura un dialogo con i suoi fedeli. È una Chiesa che riflette sui motivi per i quali le persone si sentono lontane dalla religione, sentono di aver perso contatto e che, perciò, cerca di penetrare la cultura dell’epoca, di realizzare una comunione tangibile tanto attraverso l’arte quanto attraverso il linguaggio.
Se la Roma del Seicento parla il linguaggio barocco, nelle missioni gesuite si parla il cinese. Si tratta di un germe di modernità che si annida nella Chiesa dei Borghese, un primo passo, forse manchevole, eppure che non poté mancare.
Lo storico gesuita Carmelo Oliva ha osservato che se da un lato il Romanae Sedis Antistes costituì un documento «audace»[8] che in effetti precorse di tre secoli e mezzo il Concilio Vaticano II, tuttavia dall’altro esso fu anche un documento disatteso. In effetti, quanto stabilito sull’uso dei linguaggi locali nella prassi ecclesiastica e sacerdotale non fu mai attuato. Si tratta tuttavia e nondimeno di un primo passo, quel piccolo primo passo per un uomo come Scipione Borghese e per il suo pontefice e un grande passo che si annunciava per tutta l’umanità – a voler far riecheggiare la celebre frase pronunciata alla scoperta di Nuovi Mondi.
La Chiesa di Scipione non appartiene solo ad un Cristianesimo romano antico, che torna, ad esempio, alle tradizioni medievali del cardinalis nepos, ma è anche e più di tutto una Chiesa che anticipa i tempi e si proietta nei secoli a seguire, dando impulso alle future riforme del XX secolo. Dalle stanze del Palazzo Apostolico del Vaticano del 1615, Scipione e Camillo Borghese pensavano a un Cristianesimo a venire e che verrà. nella epocale,. È nella chiesa di Scipione Borghese che la riforma della linguaggio liturgico affonda le sue radici. Lì si trova il seme della riforma della tecnica comunicativa pastorale ed è lì che Scipione trova il suo posto in una Chiesa nuova e che annuncia la costituzione conciliare, la Sacrosanctum Concilium del 1963, sull'uso della “lingua nazionale” nella liturgia cattolica.
Molti sono gli eventi che scuotono l’epoca della Chiesa di Scipione. Non solo l’arte come missione e né solo l’arte della missione, ma la scienza. Il primo Seicento è segnato da uno scontro tra scienza e fede di larghe proporzioni. È l’epoca di Galileo Galilei e della sua disputa con la Chiesa. La vicenda è nota a tutti. Meno noti sono alcuni particolari che vedono Scipione protagonista.
Galileo, fisico, astronomo, matematico, precursore della scienza moderna, intorno al 1611, attira i sospetti della Chiesa, per l’impatto delle nuove scoperte in campo astronomico sulla teologia tradizionale. La teoria eliocentrica, avvalorata da Galileo ancora in quegli anni nelle cosiddette “lettere copernicane” redatte tra il 1612 ed il 1615, era vista contraddire le Sacre Scritture. Nel 1615 Galileo veniva a Roma per difendersi dalle accuse ecclesiastiche.
Scipione segue la vicenda inquisitoria, come è documentato dagli epistolari con i quali il Segretario di Stato pontificio si teneva al corrente di quanto accadeva. Apprendeva così, da una lettera inviatagli dal Granduca Cosimo II dell’arrivo di Galileo: «Viene a Roma il Galileo matematico et viene spontaneamente per dar conto di sé di alcune imputazioni, o più tosto calunnie, che gli sono state apposte da' suoi emuli» (2 dicembre 1615)[9]. Scipione veniva così interpellato per essere messo perché potesse muoversi a difesa di Galileo. Una prova schiacciante di quanto fosse nota la sua benevolenza nei confronti dello scienziato pisano.
All’inizio del 1616 il Sant’Uffizio procede. Ne verrà l’ammonizione del cardinal Bellarmino rivolta a Galileo per aver messo in discussione l’idea di una Terra centro immobile del mondo. Galileo obbedisce e ritratta. Ma Scipione è e resta tra i cardinali italiani favorevoli a Galileo, assieme anche a Federico Borromeo e a Bonifacio Gaetani e ad altri[10].
Scipione rappresenta un’altra anima della Chiesa cattolica del XVII secolo, non quella che rifugge dalla scienza moderna, ma quella che anela alla comprensione, che riconosce nel mondo di Galileo il posto che occupa il cristianesimo.
Scipione è un esempio di amore per l’arte e per la scienza. Non solo difende e comprende Galileo, ma segue la sua disciplina, persino nei suoi aspetti più tecnici. Egli si mostra per esempio interessato all’uso dello strumento del cannocchiale, all’epoca innovativo e appena fabbricato in Olanda. Nei 1610 Galileo apprende con curiosità di questo strumento per mezzo del quale gli «oggetti benché assai distanti dall’occhio, si vedevan distintamente come se fosser vicini»[11].
Da una ricostruzione storica risulta che un esemplare di cannocchiale, già in vendita in Francia e nelle Fiandre in quegli anni, fosse mandato al cardinal Scipione, già prima, poco prima, che Galileo stesso ne facesse uso[12]. Sarebbe stato uno studente di Galileo, Guido Bentivoglio, a scrivere a Scipione della scoperta del telescopio e a descriverlo al cardinale, dopo averlo visto presso la corte dell’arciduca d’Austria (lettera del 2 aprile 1609)[13].
Da ulteriori ricerche storiche risulta anche che Scipione abbia ricevuto un secondo telescopio, questa volta direttamente da Galileo, simile a quello che aveva già ricevuto dalle Fiandre[14].
Scipione è tra gli uomini della Chiesa più vicini a Paolo V che hanno seguito le scoperte di Galileo con vero interesse. Egli è l’occhio della Chiesa che guarda attraverso il telescopio. È il sacerdozio che accoglie la nuova arte e la nuova scienza e che in essi trova il senso del vero e del Cristianesimo.
È senz’altro nell’arte, nella scienza che la vita di Scipione Borghese compie il suo percorso più intenso. Al di là delle attività diplomatiche, Scipione vive il fascino del bello e del vero come valori cristiani, non vedendovi contraddizione, ma al contrario viva consonanza e innegabile relazione.
Con animo di pastore egli guida il nuovo secolo, il XVII, nella strada del barocco e della scienza empirica, arriva da grande pellegrino del mondo moderno allo studio della realtà. È così che Scipione Borghese precorre i tempi che verranno, che siano le conquiste del Concilio Vaticano II, a cui accennavamo prima, la Sacrosanctum Concilium, o che sia la cancellazione della condanna di Galileo avvenuta 3 secoli e mezzo dopo, sotto il papato di Giovanni Paolo II. Soltanto il 31 ottobre 1992, una commissione pontificia avrebbe redatto una relazione finale nella quale la Chiesa riaccoglieva Galileo al suo seno.
Scipione sta alla radice della Chiesa moderna. La sua capacità di farsi pastore del mondo moderno, di sentirne le spinte e di guidarle, ne fa una figura unica di un sacerdozio rinnovato che senza abbandonare le Sacre Scritture, si inoltra nella scienza e nell’arte.
Il segretario di Stato pontificio di Paolo V è il pastore di Caravaggio, di Bernini, di Galileo. Soltanto uno studio biografico attento più ai percorsi della vita, che alle cronache e alle crono-storie, può far emergere questi aspetti meno evidenti di una Chiesa che nei Borghese ha rinnovato il suo spirito.
Non si può infine dimenticare la personalità di Scipione, che i biografi si attardano a tratteggiare. Di lui si ricorda spesso l’aspetto imponente, persino le forme attraenti, aggraziate e la sua disinvoltura e destrezza a cui si univano vivacità di spirito e giovialità[15]. Da altre fonti e allo stesso tempo emerge, tuttavia, anche il carattere riservato e la discrezione che egli aveva e sempre conservava in particolare di fronte al pontefice. Da un documento conservato presso la Biblioteca Vaticana, si trova scritto: «Borghese cammina con molto riguardo»[16]. Da questi piccoli dettagli di vita quotidiana, si avverte la premura e la riverenza nei più gesti stessi e nei più semplici gesti del cardinale.
Questa era la grande capacità di Borghese, quella di brillare, per la sua forte personalità, ma di non togliere luce né al pontefice né, tanto meno, alla Chiesa, ma anzi di splendere per loro e in loro. Ed è così che egli riuscì a restare nelle grazie di Sua Santità perché ad esso egli mai volle sostituirsi, ma sentì anzi l’importanza dell’indipendenza che il pontefice doveva conservare nell’assolvimento del suo gravoso ufficio.
A tal punto era la circospezione di Scipione, quando si trovava accanto al Santo Padre, che egli sembrò a molti persino ininfluente. Questa curiosa notizia, così inaspettata a fronte dell’immagine così celebrativa e prorompente di Scipione alla quale siamo abituati, è stata rinvenuta in alcuni documenti diplomatici veneziani. Non sono i dati politici qui che vogliamo cogliere, ma il lato umano del cardinale, che viene in effetti ad emergere. Si apprende così dello stupore degli inviati veneziani nel vedere al tal punto la modestia di Scipione al cospetto del pontefice, quasi egli non osasse, se così si può dire, aprire bocca, per non interferire e non sovrapporsi. Anche in udienza privata Scipione era solito non dire nulla che il papa non avesse già detto, non avallare se non dopo l’appoggio già assicurato dal pontefice. È quella che il grande storico dei papi, Ludovico con Pastor, chiamò il «prudente riserbo», l’«accorta riservatezza» di Scipione[17].
Fu un tratto costante della personalità del cardinal Borghese, espresso non in occasioni circostanziate, ma continuamente e di fronte a tutti, anche davanti alle personalità più grandi, a riprova della sua convinzione e della naturalezza della sua modestia.
È forse questo, sta forse davvero tutto qui il vero ruolo che chi ha il compito di avvicinare il papa, più di tutti e più vicino di tutti, deve assolvere. Quello di sapersi ritrarre con animo fedele e spirito di fede, con premura e allo stesso tempo con pazienza. Ed è così che Scipione Borghese fu un modello per tutti coloro che attorniavano il papa. Non solo il papa era il suo modello e il suo pastore, ma egli stesso, Scipione, si faceva modello per i fedeli, modello di umiltà, propenso all’ascolto, bisognoso di guida. E ciò venne fatto nel massimo splendore e con il massimo sfarzo, perché questa, quella dello spirito fedele e modesto e dimesso, era la via cristiana, preziosa e splendente.
La grandiosità e l’umanità di Scipione Borghese possono essere colti anche nei due ritratti, tra i più famosi, che tutt’oggi si possono ammirare del Cardinale segretario di Stato. Con il primo ritratto abbiamo aperto la prima pagina di questo libro, con il secondo chiuderemo questo primo capitolo di storia della Chiesa.
Il primo ritratto è opera di Ottavio Leoni, pittore e incisore del primo Barocco, noto ritrattista, la cui fama si deve anche al fatto che lui solo, tra i molti pittori, ebbe il privilegio di eseguire di Caravaggio. Qui il dipinto di Scipione lascia emergere il rosso porpora dell’abito cardinalizio, mette al centro un documento diplomatico, stretto nella mano destra e, nel volto delicato, il senso del bello, gli occhi rivolti allo spettatore, delicati, in segno di ascolto. È l’immagine di un uomo che nella maestosità dell’abito, conserva la semplicità e l’umanità dello sguardo.
Il secondo, più tardivo, è un busto scolpito dal Bernini. Anche qui è un autore quanto mai celebre a lasciarci un’immagine del Segretario pontificio. In quest’altra raffigurazione, non più pittorica come quella di Leoni, ma scultorea e marmorea, si può nuovamente cogliere la vivacità dello sguardo, la prontezza d’animo e la forza. Ma forse è in un particolare che la parte più espressiva della scultura trova la sua forma. Si può notare, ammirando il busto in una delle sale della Galleria Borghese, come il colletto dell’abito cardinalizio sia in parte slacciato[18]. Non una trascuratezza, ma un significativo dettaglio che ne esalta l’umanità, l’uomo tra gli uomini. Non la perfezione quindi, ma l’imperfezione di chi vive in questo mondo. Non più le forme lineari e pure dell’estetica classica e l’armonia del Rinascimento, ma il dettaglio emozionante e sconvolgente, un po’ inquieto dell’uomo reale.
Come ha anche osservato Robert Torsten Petersson, il busto berniniano di Scipione, fuori da ogni messa in posa, assume un atteggiamento fraterno, amichevole. I dettagli così umani, la minuzia dell’incisione che disegna nel marmo la pettinatura, l’acconciatura dei baffi, persino gli occhi segnati dalla stanchezza, ci ravvicinano a lui[19].
Forse il dettaglio degli occhi limpidi, brillanti e al contempo affaticati di Scipione, in questo ritratto di Bernini, ne raffigurano la personalità, l’uomo e la sua dedizione, più di ogni altra storia.
Un curioso aneddoto rende poi questo busto così speciale, aumentando la meraviglia dello spettatore. In effetti non uno, ma due sono i busti scolpiti da Bernini, quasi identici ed entrambi tutt’oggi conservati nelle stanze di Villa Borghese. Bernini ci lasciò una doppia immagine gemella di Scipione: per due volte in effetti tornò a scolpire il blocco di marmo bianco e, per due volte, vi impresse la stessa immagine, la medesima vivace ed energica espressione, allo stesso tempo segnata da una fatica umana che la rende così calda e toccante. Nel lavorare il primo busto, incidendo il marmo e scoprendone la parte interna, venne ad affiorare una vena della pietra, un’impurità del materiale che andava irrimediabilmente a segnare il blocco marmoreo nel punto in cui Bernini aveva scolpito la fronte di Scipione, una vena profonda che nessuna levigatura riuscì a togliere. Fu così che Bernini, per non dispiacere al grande mecenate, riscolpì l’opera, lavorando febbrilmente al nuovo busto, notte e giorno[20]. Questo è lo spirito operoso e di amorevole premura che Scipione seppe creare intorno a sé, la Roma delle grandi e meravigliose imprese.
[1] M. Sacripanti, La villa Borghese, Roma 1953
[2] Giuseppe Resca, La spada e la Misericordia, Roma 2001, p. 16
[3] George L. Williams, Papal Genealogy : the Families and Descendants of the Popes. Jefferson 1998, p. 98, in riferimento alla monumentale Storia dei papi di Pastor.
[4] Relazione della Corte di Roma lette al Senato dagli Ambasciatori Veneti. Ambasciatore Giovanni Mocenigo 1612, in Marzio Bernasconi, Il cuore irrequieto dei papi : percezione e valutazione ideologica del nepotismo sulla base dei dibattiti curiali del XVII secolo, Bern 2004, p. 189.
[5] Valerio Castronovo, Borghese-Caffarelli Scipione, in Dizionario Biografico degli Italiani, vol 12, Roma 1971, pp. 620-624
[6] Collectanea S. Congregationis de Propaganda Fide, Roma 1907, p. 70.
[7] Carmelo Oliva, Un precursore della liturgia in lingua nazionale, in «La Civiltà Cattolica», vol. 119 (1968), vol. III, p. 489.
[8] Ivi, p. 480.
[9] Massimo Bucciantini, Contro Galileo, Firenze 1995, p. 72.
[10] Mario Sensi, Vita e opere di Galileo Galilei. Il “Caso Paschini”, in Giandomenico Boffi (a cura di), Scienza e fede dall'Unità d'Italia a oggi, Roma 2012, p. 65.
[11] Antonio Favaro, Galileo Galilei, Firenze 1964, p. 17.
[12] Ibidem.
[13] Laura J. Snyder, Eye of the beholder, New York 2015.
[14] Huib J. Zuidervaart, The true story of the Telescope, in Albert Van Helden, (a cura di), The origins of the telescope, Amsterdam 2010, p 17.
[15] Informazioni tratte dall’archivio Gonzaga di Mantova, C. Magni 23 luglio 1605.
[16] Avviso del 17 giugno 1605 (Biblioteca Vaticana).
[17] Ludovico von Pastor, Storia dei Papi. Vol . XII Storia dei Papi nel period della Restaurazione Cattolica e della Guerra dei Trent’anni,, Roma 1930, pp. 46-48.
[18] Sul dettaglio dello colletto slacciato ha riflettuto Claudio Strinati, Il mestiere dell'artista. Dal Caravaggio al Baciccio, Palermo 2011.
[19] Robert T. Petersson, Bernini and the excesses of art, Firenze 2002, p. 104.
[20] Filippo Baldinucci, Vita di Gian Lorenzo Bernini, Milano 1948.